Questa è la storia di una parola, di una promessa divina, scritta tremila anni fa per me. Mi ero sposata a ventidue anni e, come credente e praticante, avevo voluto fortemente il matrimonio religioso.

Però, durante il corso prematrimoniale, il mio futuro marito disse chiaramente, al sacerdote che ci preparava, che lui avrebbe votato in favore del divorzio. Era una “luce profetica”, che non ho voluto cogliere. Il sacerdote a quel punto non voleva darci più il visto per la celebrazione e si convinse a farlo solo per la mia insistenza, le mie lacrime e le mie rassicurazioni.

Ci separammo dopo appena cinque anni. Io lo avevo messo al centro di tutta la mia esistenza, mentre invece lui mi tradiva con un’altra donna.

Rimase solo il Signore a riempire i miei vuoti, le mie aspettative deluse, il mio fallimento.

Quando conobbi Franco, iniziai a fare i primi passi per ottenere il riconoscimento di nullità di quel vincolo matrimoniale; ma dovetti arenarmi subito, perché il sacerdote che conosceva la nostra storia era morto e non avevo altri testimoni. Non sapevamo come risolvere diversamente la nostra situazione e andammo a convivere. Ci trasferimmo anche in un’altra città, perché Franco aveva perso il lavoro e non potevamo più fronteggiare tante spese. Lasciavo i luoghi che mi erano familiari, lasciavo i miei sogni, per andare incontro a un futuro che mi appariva oscuro; non immaginavo che, invece, il Signore stava preparando la nostra risurrezione. Avevo un grande desiderio di vita sacramentale e starne lontana mi procurava una lacerazione interiore; però, pur nella sofferenza e nell’emarginazione, mi ero ritrovata a percorrere un cammino comunitario meraviglioso, nel quale stavo riscoprendo il volto di Dio Padre che, senza guardare alla mia condizione, mi accoglieva e mi stringeva a Sé. Ero entrata a farparte della Comunità Gesù Risorto. Più mi inoltravo nel cuore di Dio, più si acuiva la sofferenza per l’impossibilità di ricevere l’Eucaristia.

I Responsabili della Comunità, che avevano ben compreso tutto questo, mi spinsero a inoltrare di nuovo quella richiesta. Cosa che feci, confidando nella preghiera di molti. Si avvicinava intanto il Natale. Davanti al Presepe pregai così: «Gesù, non ce la faccio più a non riceverti nel mio cuore! Dimmi se potrò sposare Franco e riaverti tutto per me e per la mia famiglia!». In Comunità avevo imparato a leggere la Bibbia e i miei occhi caddero su questo brano, tratto dal profeta Geremia, al cap. 52: «Trentasette anni dopo la deportazione di… il venticinque del dodicesimo mese di quell’anno… il re concesse la grazia a… e lo fece uscire dalla prigione. Lo trattò con grande bontà e gli assegnò un posto d’onore. Gli permise di non indossare più la divisa dei prigionieri e di mangiare a tavola con lui per il resto della sua vita».

Ero fuori di me dalla gioia. Sentivo quella parola tutta per me: la prigioniera ero io. Ero io la deportata. Mi ricordai che mancava un anno al “trentasettesimo anno” del mio matrimonio fallito e, fatti due calcoli, vidi che “il venticinquesimo giorno del dodicesimo mese” sarebbe stato proprio il giorno di Natale dell’anno seguente.

Era Gesù Bambino che stava scrivendo dritto nelle mie pagine dalle righe storte. Mi stava dicendo che, trascorso un anno ancora, mi avrebbe concesso la grazia, cambiando le mie vesti da deportata e trattandomi con grande bontà. E soprattutto che avrei mangiato alla sua tavola, per tutti i giorni della mia vita.

Ora, a voi che leggete, io mi trovo a dire che Dio è fedele alle sue promesse e per me ha fatto “come aveva detto”. È venuto Natale e con esso la sentenza di nullità del mio primo matrimonio sbagliato e, dopo pochi mesi, Franco ed io ci siamo sposati, scegliendo la domenica della Divina Misericordia, per ringraziare il Signore di averci di nuovo invitato alla Sua Mensa.

Anna e Franco

Parr. “S. Francesco” – Borgo Bainsizza

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