“Vieni a me, tu che sei stanco, affaticato e oppresso e io ti ristorerò”

Avevo 24 anni quando morì mio padre e con lui persi non solo il consigliere, ma il vero punto di riferimento della mia vita. Mi ribellai perciò al Signore, non riuscendo a perdonargli il fatto che se lo fosse portato via proprio quando, raggiunta la pensione, poteva godersi finalmente un meritato riposo, dopo una vita di sacrifici e di lavoro sostenuti per mandare avanti una famiglia numerosa. Poco dopo la sua morte, essendo fidanzato da molti anni, decisi di sposarmi. Questo passo così impegnativo tuttavia non mi impedì di entrare nel giro della droga. A 25 anni incominciai a fare uso di cocaina e, per ben 12 anni, ne sono rimasto schiavo; sebbene, come tutti quelli che ne sono soggiogati, mi illudevo di poterne fare a meno quando lo avessi deciso.

Iniziai a condurre una vita non da semplice “delinquentello” di strada, ma da vero “uomo d’affari”. Naturalmente erano affari non puliti, che tuttavia mi permettevano di avere quello che volevo: soldi, donne, una macchina potente, una barca; ma, nonostante tutto questo, in cima a ogni desiderio c’era sempre lei: la droga. Vivevo un’esistenza disordinata, dormivo di giorno e uscivo di notte e così facendo distruggevo non solo la mia vita, ma anche quella delle persone che mi volevano bene. Mia moglie difatti, dopo qualche anno, mi lasciò e, rimasto solo, diedi sfogo a tutte le mie più abiette passioni, in un crescente degrado, che mi fece toccare il fondo il giorno in cui fui accusato di un reato che peraltro non avevo commesso.

Quella sera mi sentivo a pezzi e mi resi conto dell’inutilità della mia vita: sebbene avessi tutto, pure nella mia esistenza non c’era nessuna vera gioia; anzi, dentro di me sentivo avanzare la morte, ma non quella fisica, che nel mio caso sarebbe stata una liberazione, ma una morte che avvertivo essere più tremenda: quella interiore, quella dello spirito.

Amareggiato tornai a casa e lì, all’improvviso, udii una voce, come se realmente una persona mi stesse parlando, che diceva: «Vieni a me, tu che sei affaticato e oppresso, e io ti ristorerò». Io, che ero lontano dalla Chiesa e non conoscevo le Sacre Scritture, ho creduto per un attimo di essere diventato pazzo, ma poi qualcosa dentro di me mi ha fatto comprendere che quella era la voce di Dio. Ho cominciato allora a discutere con Lui, l’ho accusato di starsene comodo seduto sul suo trono a emettere sentenze. Gli domandai che senso avesse la mia esistenza: una sequela di errori, fallimenti, distruzioni. Gli chiesi: «Cosa vuoi da me, sei venuto a condannarmi? Vieni, scendi dal tuo trono e parla a un disgraziato come me».

No, non ero pazzo, stavo lottando con il Signore perché, anche se non lo vedevo, avvertivo la sua presenza. Preparai allora due bicchieri di whisky e due dosi di cocaina; io assunsi la mia, ma l’altra naturalmente rimase lì. Solo allora capii quale fosse la radice del mio male: presi tutta la droga che avevo in casa (ed era un quantità considerevole) e la gettai nel water e così feci pure con il whisky; poi lo sfidai a liberarmi da un altro vizio dal quale ero ossessionato, quello del sesso. Alla fine, esausto, andai a dormire.

Il mattino successivo ero veramente un altro uomo e subito il Signore mi chiese la conferma del mio “sì”. Difatti vennero a bussare alla mia porta alcuni amici per propormi i “soliti affari” e io non solo rifiutai, ma anzi annunciai loro che la sera precedente avevo incontrato Gesù e che per questo motivo avevo deciso di abbandonare quella vita balorda e li invitai a fare altrettanto.

Da quel giorno ebbe inizio la mia “seconda vita”: confidavo soltanto in Dio, ricevendone in cambio una pace, una serenità che mai, prima di allora, avevo provato. La mattina mi alzavo, andavo a lavorare in ufficio e, quando uscivo di lì, mi recavo in chiesa dove trascorrevo ore davanti al Santissimo. Sentivo crescere, giorno dopo giorno, un desiderio instancabile di pregare, tanto che anche di notte mi svegliavo: la preghiera, per me, era diventata indispensabile come l’aria che respiravo; non potevo più farne a meno.

Per tre anni il Signore mi ha tenuto stretto a Lui, curandomi e istruendomi. Non comprendevo bene le “cose” che Dio di volta in volta mi faceva sperimentare e alle quali, solo dopo essere entrato in Comunità, ho saputo dare un nome. Quando ero nella “mia cappellina”, che era diventata la mia casa, Gesù mi donava, interiormente, la conoscenza del Vangelo; altre volte mi capitava di parlare in modo strano senza capire quello che dicevo (mi sembravo matto); oppure mi succedeva improvvisamente di addormentarmi e, quando mi risvegliavo, provavo un senso di pace infinita; qualche volta invece, senza un motivo, scoppiavo in un pianto dirotto; altre volte invece mi imbambolavo a contemplare l’ostia, nella quale vedevo il mio Signore. In Comunità, rivivendo queste stesse esperienze, ho saputo che erano doni di Dio: i carismi.

Se la mia vita spirituale era esaltante, non altrettanto accadeva però per quella materiale. Difatti, avendo cambiato radicalmente il mio modo di vivere e non concludendo più quegli “affari vantaggiosi” di un tempo, ma vivendo esclusivamente del mio onesto stipendio di impiegato, mi ritrovai sommerso da quei debiti che avevo precedentemente contratto per appagare ogni mio capriccio. Così, sebbene avessi imparato a vivere trattenendo per me solo lo stretto indispensabile, dopo un anno di sacrifici scoprii che ero riuscito solo a pagare gli interessi maturati: il debito purtroppo era ancora tutto lì.

Il giorno che feci questa amara scoperta, mi arrabbiai con il Signore; ma appena misi piede nella cappellina dell’adorazione, sentii la stessa famosa voce che mi diceva: «Al primo impedimento non sono più il tuo Signore». È stato come se una spada mi tagliasse in due. Mi sentivo come Pietro quando Lo aveva rinnegato: mi vergognavo di guardarlo, allora mi sono buttato a terra gridando: «Perdonami, Gesù! Se tu vuoi che per tutta la vita lavori senza poter estinguere il mio debito, per me va bene, sia fatta la tua volontà». Subito Lui, che non si lascia vincere in bontà, mi ha ridonato la pace.

Dopo appena una settimana da questo episodio, una signora che avevo conosciuto proprio in quella chiesa, venuta a conoscenza della mia situazione, si offrì di aiutarmi a pagare una cospicua parte del mio debito. Le dissi che non avrei potuto ridarle quella somma in breve tempo, ma lei mi rispose che avrebbe atteso fino a quando avessi potuto. Un angelo che Dio mi aveva mandato per non lasciarmi cadere nelle mani degli sciacalli!

Lo Spirito Santo poi mi illuminò su come estinguere gli altri debiti; andai a parlare con i direttori delle banche a cui dovevo i soldi raccontando loro ciò che il Signore aveva fatto per me (non mi vergognavo a testimoniare l’amore di Dio, perché Lui aveva reso la mia faccia di pietra) e mi accordai per le modalità di pagamento. In tre anni ho pagato ogni creditore e restituito quanto mi aveva prestato quella “sorella” così generosa.

Avendo vissuto l’esperienza del bisogno, nacque forte in me il desiderio di occuparmi dei poveri e, poiché mi ero reso conto di essere stato guarito anche dalla bramosìa del sesso, riuscendo a vivere in assoluta castità, pensai che avrei potuto consacrarmi come laico e partire volontario per qualche missione in Africa. Ma il sacerdote al quale mi rivolsi per un consiglio mi invitò a chiedere a Dio il discernimento su quale fosse il suo progetto per me.

Incontrai così un padre gesuita che mi aiutò a mettermi maggiormente in ascolto del Signore, per poter comprendere cosa dovessi fare della mia vita, e, alla fine di quel breve periodo di riflessione, le parole che ebbi nel cuore furono: «Fidati sempre di Me. Dai a Cesare ciò che è di Cesare; finiti di pagare i debiti vedrai la strada da percorrere». E così feci, anche se cresceva sempre di più il desiderio di servire i poveri.

Poi un giorno, mentre pregavo nella cappellina, sentii il bisogno di tornare nella mia parrocchia. Così una sera andai alla Messa nella chiesa di Don Bosco e, appena entrato, sentii un ragazzo che dall’ambone chiedeva volontari disponibili al servizio per i bisognosi: ringraziai il Signore perché, Lui che è grande, mi aveva dato la possibilità di realizzare anche quel progetto. Entrai così a far parte del gruppo di volontariato e lì conobbi Annarita, una ragazza insieme alla quale mi fu affidato il compito di occuparci di un ragazzo indiano. Con lui instaurammo un bellissimo rapporto, anche se non privo di difficoltà e, al termine di un anno di impegno, riuscimmo a farlo rientrare in patria, con sua grande gioia

Terminato questo compito io e Annarita non avevamo più necessità di incontrarci ogni giorno, ma ci vedevamo solo un paio di volte alla settimana per riunioni di servizio; il non vederla e sentirla giornalmente però mi faceva star male, lei mi mancava: mi ero innamorato. Lo scoprire che anche lei provava lo stesso sentimento invece di rendermi felice mi spaventò, perché ero consapevole di non poterle offrire nulla, dal momento che risultavo ancora sposato. L’amore mi aveva cambiato: non riuscivo più a pensare solo a me stesso, ma quello che contava per me era la sua felicità.

Allora mi presi del tempo, durante il quale tuttavia sentivo crescere sempre di più il mio amore per lei; chiesi nuovamente consiglio al mio confessore e lui mi invitò a fare subito richiesta di riconoscimento di nullità del mio precedente matrimonio presso la Sacra Rota e, di fronte alla mia perplessità che la richiesta potesse essere accolta, mi disse di continuare a fidarmi dal Signore. Così feci.

Con Annarita frattanto entrammo a far parte della Comunità Gesù Risorto a Don Bosco e lì, con l’aiuto dei responsabili e dei fratelli, siamo cresciuti spiritualmente. Decidemmo pertanto che, in attesa della sentenza, avremmo vissuto in perfetta castità e che, qualora il responso fosse stato a noi sfavorevole, di comune accordo avremmo offerto il nostro amore al Signore, rinunciando l’uno all’altra.

Inoltre in quel periodo, dopo sette anni di attesa, si tenne il primo grado del processo a mio carico per quel reato che non avevo mai commesso: la sentenza fu di condanna. Ricordo lo sconforto con il quale andai il sabato successivo alla preghiera comunitaria: mi piangevo addosso, perché non accettavo l’ingiusto verdetto. Durante la lode però Gesù mi fece ripensare a tutte le ingiustizie che Lui, per amor nostro, aveva subìto e di come avesse perdonato i suoi carnefici. Allora compresi che, se volevo ritrovare la pace, dovevo io pure perdonare i miei accusatori: riuscii a farlo di cuore.

Però non accettavo il peso di una condanna immeritata e perciò decisi di ricorrere in appello; il mio avvocato mi suggerì di allungare i tempi di modo che la sentenza, scaduti i termini, cadesse in prescrizione: il massimo che secondo lui avrei potuto ottenere. Non accettai, gli dissi che mi fidavo del Signore, ma lui quasi beffardo replicò che nelle aule dei tribunali non c’è Dio, ma un plotone d’esecuzione. Senza farmi scoraggiare, replicai: «Avvocato, lei faccia il suo dovere, che il resto lo fa Dio». Il verdetto finale dell’appello fu di assoluzione, poiché “il fatto non sussisteva”.

Ma le meraviglie del Signore non finirono lì, perché arrivò anche la sentenza di nullità del matrimonio e così potei sposare Annarita; arrivarono poi i figli, una casa e la provvidenza non ci è mai mancata .

Questa è la mia storia, quella di un uomo a cui Dio, nella sua infinita misericordia, ha teso una mano e dal quale ha ricevuto in risposta un “sì” incondizionato. Benedetto sia il sì che ti ho dato, Signore, perché in virtù di quello Tu hai fatto nuove tutte le cose della mia vita; mi hai fatto rinascere, ricostruendomi come un piccolo puzzle, giorno dopo giorno, con la delicatezza di cui solo Tu sei capace.

Roberto – Parr. “Assunzione di Maria SS.” – Roma

L’amore di Gesù ha rivoluzionato la mia vita

Ero solo, perseguitato dagli strozzini e imbottito di psicofarmaci. Ora ho una bella famiglia numerosa e servo Gesù nei fratelli.

Dopo il diploma cominciai a lavorare nell’attività familiare; gli affari andavano bene, avevo tutto ciò che ritenevo essenziale: soldi, macchine, amici, ragazze e divertimenti. Poi mio padre si ammalò e la sua malattia si protrasse per ben dieci anni, durante i quali insorsero gravi problemi economici. Non potevo dire niente a casa per non allarmare ulteriormente i miei e non sapevo a chi chiedere aiuto, così finii per commettere l’errore di rivolgermi agli strozzini. Quando mio padre morì la situazione precipitò; non riuscii più a far fronte alle richieste degli usurai che diventavano ogni giorno più incalzanti. Ero oppresso, assillato, continuamente minacciato, non sapevo più cosa fare: con le spalle al muro reagii diventando un po’ come loro. Ho dovuto allontanarmi perciò da casa, cominciando a frequentare un mondo fino ad allora a me sconosciuto: mi sentivo solo, perseguitato, la notte non riuscivo più a dormire e, se mi capitava di addormentarmi, ero assalito da incubi spaventosi, motivo per cui cominciai ad assumere tranquillanti e psicofarmaci.

Ormai, quando mi guardavo allo specchio, non mi riconoscevo più: ciò che vedevo riflesso era l’immagine di una persona cattiva, il volto deturpato dall’odio, dal rancore, quello di un uomo veramente capace di tutto!

Solitudine, amarezza, disperazione mi fecero toccare il fondo. Arrivai a prendermela anche con il Signore che accusavo di essere la causa di tutto quello che mi stava accadendo; mi resi conto, però, che stavo giudicando Qualcuno che neanche conoscevo bene. Ho pensato così che l’unico modo per poterne sapere di più fosse quello di cominciare a leggere la Bibbia.

Iniziai dall’Antico Testamento, ma per me era incomprensibile ciò che trovavo scritto, allora passai al Nuovo Testamento e, devo dire, che lo lessi tutto d’un fiato trovando le risposte che cercavo a ogni mia domanda. Quelle parole che leggevo mi bruciavano interiormente; giorno dopo giorno Gesù entrava con potenza nella mia vita, trasformandola da “acqua putrida in vino buono”. Finalmente il mio cuore cominciò ad ammorbidirsi, fiumi di lacrime, mai prima versate, cominciarono a sgorgare dai miei occhi. Io che non ero stato in grado di piangere neanche alla morte di mio padre, ora potevo liberamente farlo.

Leggevo e rileggevo il Vangelo che era diventato l’unico punto di riferimento e che mi aiutava a conoscere i veri valori della vita. Con l’aiuto del Signore riuscii a trovare delle persone che mi fecero uscire dal giro degli usurai. Ero rimasto senza soldi, eppure ero finalmente felice perché potevo tornare a vivere alla luce del sole, camminare in mezzo alla gente senza dovermi più nascondere, potevo far ritorno alla mia casa e smettere di prendere medicine.

Un giorno incontrai la Comunità Gesù Risorto; cominciai a frequentarla assiduamente, lasciandomi coinvolgere sempre di più. Mi innamorai perdutamente di Gesù: pensavo solo e sempre a Lui, tanto che di notte spesso i miei familiari, sentendomi cantare o parlare in altre lingue, credevano che mi stessi inventando qualche cosa, ma così non era e anche loro dovettero arrendersi all’evidenza: ero realmente cambiato e così mi seguirono nel cammino comunitario.

Dopo un anno che frequentavo la Comunità, mi nominarono Responsabile e fu allora che decisi essere giunto il momento di mettere ordine nella mia vita privata: sentii il bisogno di un lavoro stabile e, soprattutto, cominciai a desiderare una famiglia mia, dal momento che avevo ormai quarantacinque anni.

Durante un Convegno, ricordo che Gianpaolo Mollo, uno dei fondatori della Comunità, invitò i “single” sotto il palco, per ricevere una preghiera, affinché il Signore li aiutasse a trovare la propria strada matrimoniale o sacerdotale; io aderii all’invito. Ad agosto dello stesso anno incontrai Tonia: fui subito attratto da lei e, in breve tempo, ci fidanzammo e sposammo. Nel giro di pochi anni, abbiamo avuto quattro bei figli; ora ho un lavoro stabile e ho potuto realizzare anche il sogno dell’acquisto di un bella casetta. Io e mia moglie siamo felicemente sposati da dieci anni e abbiamo posto al centro della nostra vita Gesù e la Santissima Trinità. Da diciannove anni faccio parte della Comunità Gesù Risorto e con mia moglie e un’altra sorella siamo Responsabili di Comunità a Taranto. Ho anche ricevuto l’incarico di Delegato diocesano. Avrei ancora tanto da raccontare. Se mi guardo indietro, mi rendo conto che il tempo è volato. Quanti doni Dio mi ha elargito e quanti prodigi ha compiuto in mio favore! A volte penso di non essere degno di tanta attenzione a causa del mio passato di peccatore, ma, poi, comprendo che il suo Amore è più grande di qualsiasi peccato e che Lui dà a tutti la possibilità di redimersi senza distinzioni o preferenze. Non è detto che, avendo incontrato il Signore, le cose vadano per forza sempre bene, tuttavia una cosa è certa: avendo Lui accanto, anche le prove più ardue si affrontano con un altro spirito: tutto si supera, sicuri di non essere mai soli.

Paolo – Parr. “Maria SS. Addolorata” – Taranto

La mia esperienza dei carismi

Oggi ho quarantadue anni, quando entrai per la prima volta in Comunità ne avevo diciannove; fu a un Corso per i Giovani, a Sassone, vicino Roma, dove mi aveva invitato una mia carissima amica, Anna, che ora sta nella gloria di Dio. A quell’epoca ero in Seminario e lei, che frequentava l’Università Lateranense, mi diceva sempre. «Dai, Stefano, vieni a pregare con noi!». Era di un’insistenza veramente unica.

Quando domandavo in Seminario, mi rispondevano che si trattava di gente esaltata; ma poi, guardando lei, restavo colpito dalla sua bellezza e dalla sua intelligenza. Così decisi di andare a vedere, di persona.

Non conoscevo nessuno e le prime parole in lingue che sentii mi misero una paura da morire, tanto da farmi pensare che fossero tutti indemoniati e che da un momento all’altro qualcuno potesse saltare in aria. Al pranzo mi misi in un angolo, sembravo un pulcino fuori dal guscio. Vennero alcuni responsabili e mi chiesero come mi chiamassi e che cosa avevo pensato della preghiera. «Mi sembrate tutti matti» risposi; e loro confermarono di aver avuto tutti questa impressione al primo incontro. Bene, di questa pazzia il Signore ha contaminato ben presto tutta la mia famiglia, che una settimana dopo portai con me nella chiesa di “S. Angelo in Pescheria”.

Io conoscevo già il Signore; fin da bambino avevo fatto parte di gruppi di preghiera mariani, dove dicevamo tre rosari per volta. Però avevo sempre un dubbio: sì, il Signore mi amava, ma io non ne avevo diritto, perché mi conoscevo, conoscevo i miei limiti e i miei peccati. Ma in uno di questi primi incontri una frase mi si stampò nel cuore: «Dio ti ama così come sei, adesso, davanti a Lui!».

Sembra una cosa così semplice… ce lo dicono i preti, noi lo diciamo agli altri, ma finché non sei folgorato da questo amore, tu non ne hai in realtà nessuna esperienza.

Un’altra pietra miliare fu il giorno della mia effusione. In realtà il libretto per la preparazione non lo avevo letto, anche perché, come seminarista, pensavo in realtà di non averne bisogno. Mentre stavo ricevendo la preghiera, tutti presero a dirmi: «Hai il dono delle lingue», «Ma che devo fare?» «Prega e dì: Maranathà…». Ricordo che per l’emozione dissi una cosa per un’altra… ma a un certo punto successe una fatto straordinario: mi si sono chiusi gli occhi ed è partito un canto in lingue potente, irrefrenabile, che mi ha sconvolto. Poi mi hanno raccontato che quelli che passavano nella strada lì accanto si voltavano… Io sono una persona timida, anche se negli anni poi il Signore mi ha fatto vincere questa timidezza, e la cosa che più mi sconvolgeva in quel momento era che non fossi padrone di comandare alle labbra e al cervello di tacere. Ma il Signore parlava Lui. Questo canto mi veniva dal cuore.

E poi ebbi il carisma della fede, per il quale ci è dato di credere che davvero possiamo spostare le montagne; anche se purtroppo non durò a lungo.

Mi sembrava di camminare sulle nuvole. Per questo il rientro in Seminario fu uno shock; perché all’inizio i doni sono irrefrenabili: ti trovi a pregare in lingue di notte, a fare preghiere di liberazione mentre dormi, a gridare in lingue per i corridoi quando nessuno ascolta. Soprattutto durante la S. Messa, al momento dell’elevazione temevo di uscirmene con questo canto e, di conseguenza, che non mi ordinassero più sacerdote!

Il sabato riscappavo di nascosto a “S. Angelo”, anche se in realtà i miei superiori avevano capito benissimo che andavo a pregare dai “carismatici”.

Una volta ci fu una preghiera fortissima e io ricevetti come una luce, che mi fece capire che non avevo mai pregato affinché le persone guarissero. Fino ad allora avevo pensato che solo i Santi potevano intercedere presso Gesù perché toccasse le persone; ma quando capii che non era la santità dell’uomo che compiva i miracoli, bensì l’amore del Signore, il quale vuole che tutti i suoi figli siano salvati, allora gli chiesi di poter diventare come quegli amici del paralitico, che avevano scoperchiato il tetto della casa, pur di calarglielo davanti ai piedi.

È per la fede di quegli amici che il Signore guarisce lo spirito del paralitico e poi conferma con la guarigione del corpo, dicendogli: «Alzati e cammina!». Così dobbiamo essere tutti noi, anche verso quello che è entrato adesso, per la prima volta, qui in Comunità. Dobbiamo portare a Lui tutti i paralitici, perché sono tanti coloro che aspettano la risurrezione; è un mondo paralitico il nostro e noi dobbiamo portarlo a Gesù, che è venuto per salvare l’umanità. Dobbiamo solo portare le persone e poi dire: «Signore, so che ci ami, che ami questo mio fratello. E anche io lo amo», poiché è questa compassione che smuove il cuore di Dio.

Voglio raccontarvi a questo proposito un altro episodio, che ha cambiato radicalmente la mia esperienza sacerdotale e che racconto a gloria di Dio.

In preghiera era stato proclamato il brano di Pietro e Giovanni che vedono un paralitico alla Porta Bella e che “nel nome di Gesù” lo fanno alzare e camminare. Io ero uscito correndo, per rientrare in tempo in Seminario; quando vedo un povero anziano appoggiato al muro di Palazzo Venezia, come se non riuscisse a stare in piedi. Avevo il colletto da sacerdote e il passare oltre avrebbe dato scandalo… vedete come Dio adopera tutto, anche la vergogna del giudizio degli altri, per i suoi fini…

«Fratello, che ti è successo?» domando e questo mi dice: «Ho una malattia che a un certo punto mi blocca gli arti; posso fare in tempo solo a buttarmi su qualcosa perché mi si bloccano le gambe e mi rattrappisco tutto. Poi dopo una mezz’ora mi passa». Io, che venivo da quella preghiera, l’ho preso per mano e nel mio cuore ho ripetuto le stesse parole di Pietro: «Non ho né oro né argento, ma nel nome di Gesù dico a questo fratello: alzati e cammina!». Poi ad alta voce ho detto a lui: «Vieni sotto braccio a me; dove devi andare?» e quello mi ha seguito saltando dalla felicità, così emozionato che stava quasi per finire sotto un autobus. Mi ha chiesto: «Chi sei?», «Non sono nessuno; solo uno che vuole bene a Gesù» ho risposto. E da lì ho capito la fede che realizza la salvezza.

Un’altra esperienza bellissima il Signore me l’ha fatta fare ancora con il dono delle lingue, un carisma importantissimo, perché fa pregare direttamente il nostro Spirito.

Ero sacerdote da poco e avevo ricevuto una delusione fortissima dal gruppo dei giovani che seguivo, tanto forte che ero arrivato a scioglierlo e a ritenere inutile “perdere tempo” con loro, capaci solo di chiacchierare e non di impegnarsi realmente per i fratelli sofferenti. Ma da quel momento iniziò un martellamento nel mio spirito, una fase in lingue che mi risuonava dentro giorno e notte, qualunque cosa facessi. Conoscevo una laureanda in archeologia, una persona davvero preparata e, non volendomi compromettere direttamente, le dissi di aver visto un film in cui un sacerdote leggeva questa frase in un tempio, frase di cui avrei voluto sapere la traduzione, se esisteva. Lei mi assicurò che ne avrebbe parlato anche al suo professore di lingue semitiche antiche e dopo una settimana arrivò con la risposta: si trattava della lingua ugaritica (1.800 anni avanti Cristo), inoltre (in un libro che possedevano solo 3 Università in Italia) aveva trovato la foto di un tempio nel quale questa frase era riportata sui dodici pilastri. La traduzione era: «Vieni presto, Dio della pace».

Ecco che cosa implorava il mio spirito, che non aveva pace, con “gemiti inesprimibili”.

Un’altra volta mi è capitato di pregare per una persona importante, di una famiglia ebraica di Roma. Questa persona era fortemente interessata a Gesù, anche se aveva naturalmente difficoltà a riconoscerlo come Messia. Allora io ho chiesto in italiano: «Spirito Santo, fa che questa figlia possa riconoscere Gesù come Messia e come suo Salvatore», poi ho cantato e pregato nelle lingue. Alla fine lei mi fa: «Come mai prima lo hai detto in italiano, poi me l’ha cantato in aramaico antico e poi me lo hai ripetuto in iddish, il dialetto che mia nonna usava all’inizio del Novecento?». Quando le ho spiegato che non conoscevo queste altre lingue, è rimasta strabiliata; così le ho spiegato della Pentecoste, dell’effusione dello Spirito, degli Apostoli, e così via.

Ma anche io ho capito una cosa nuova, importantissima S. Paolo ci rivela che, nel nome di Gesù, ogni ginocchio deve piegarsi e “ogni lingua” deve proclamare che Lui è il Signore; ora lo Spirito Santo vuole che ciò avvenga davvero in “tutte le lingue”: anche in quelle passate, che non hanno potuto conoscere Gesù, come in quelle presenti e future, anche dei marziani, se mai ci fossero i marziani. Ecco l’essenza ultima del dono delle lingue: glorificare il Padre e il Figlio, nella potenza dello Spirito Santo, anche in quelle lingue che non avevano potuto ancora dare loro lode, gloria e onore!

La Comunità ha questo grande dono, quello di pregare; e poi di testimoniare che la salvezza passa per le mani di uomini deboli e peccatori, ma amati da Dio e resi strumenti della sua misericordia. Vedete, carissimi, tutti abbiamo bisogno di amore. E Dio è amore. È questo il messaggio che vince il mondo; non la nostra potenza, non le nostre forze. È l’amore che metteremo nel nostro annuncio; se io sono qua è perché ventitré anni fa una ragazza mi ha tormentato per un mese intero, perché mi voleva bene e voleva che io conoscessi davvero il Signore.

Noi dobbiamo evangelizzare tutto il mondo, andare ovunque e dire: «Dio ti ama! Fratello, sorella, Dio ti ama così come sei, adesso, davanti a Lui».

Don Stefano Ranfi Le preghiere di quei “pazzi” hanno prodotto effetto

Nel 2005 a Palermo venni sottoposto a intervento chirurgico per la cucitura del tendine di Achille. Dopo otto giorni mi recai in ospedale per un controllo ma, dopo una flebo, insorsero seri problemi respiratori e, nonostante le terapie da subito prestatemi, comincia a peggiorare.

I miei familiari pensarono allora di trasferirmi in un centro ospedaliero più specializzato, ma i medici li sconsigliarono; addirittura dissero a mia moglie che rischiavo di morire durante il trasporto. Evidentemente non sapevano che il progetto del Signore per me era un altro.

Difatti, nonostante il loro parere contrario, il giorno successivo, tramite volo assistito, fui trasferito a Roma, presso l’Ospedale Forlanini, dove rimasi ricoverato per un mese. Tornai a Palermo ma, quando cominciavo a riprendermi, si fratturarono tre vertebre; e, come se tutto questo non bastasse, l’anno successivo fui nuovamente ricoverato a Roma, nello stesso ospedale, per l’ostruzione delle vene Aorta e Iliaca, motivo per il quale si rese necessario un nuovo intervento chirurgico.

Nell’attesa dell’operazione, programmata dopo pochi giorni, una sera decisi di andare ad ascoltare la Messa presso la cappella dell’Ospedale. Ero arrivato con anticipo perché volevo stare in raccoglimento davanti a Gesù e chiedergli la grazia di un buon esito dell’intervento; invece trovai un gruppo di persone che pregavano in modo strano e che, come seppi in seguito, appartenevano alla Comunità Gesù Risorto.

La mia tradizionale preghiera, fatta di silenzio e di raccoglimento, mi portò a giudicare quelle persone come “pazzi fanatici” che, comportandosi in quel modo, non consentivano agli altri di pregare così come erano soliti fare. Infastidito, fui tentato di andarmene, eppure qualcosa mi bloccava e così rimasi fino alla fine del loro incontro.

Al termine della Messa, seppure dubbioso, e soprattutto perché spinto dalla disperazione causata dai forti dolori, mi avvicinai ai responsabili di quel gruppo. Ero da rottamare: gli antidolorifici ormai non ottenevano più risultati; ero curvo, camminavo stentatamente e solo con l’ausilio delle stampelle. Chiesi allora di pregare per la mia salute e loro lo fecero subito e mi assicurarono che avrebbero continuato a farlo.

Dopo qualche giorno fui operato per liberare le arterie ostruite e, al termine dell’intervento, il chirurgo mi disse: «Quando ritornerà a casa accenda un cero a qualche santo, perché lei è un miracolato». In quel momento pensai: «Vuoi vedere che le preghiere di quei “fanatici” stanno producendo effetto?».

Non feci in tempo a ringraziare il Signore e queste persone che avevano pregato per me, che subito si presentò la necessità di un ulteriore intervento molto rischioso, questa volta alla colonna vertebrale. Chiesi nuovamente ai “fratelli” di Roma di pregare per me.

Anche a conclusione di questa operazione effettuata a Catania, il medico mi disse che ero un “miracolato” perché, se avessi ritardato anche di poco questa operazione, avrei rischiato di rimanere a vita su di una sedia a rotelle. Ringraziai e lodai nuovamente il Signore e, quando dopo qualche tempo ritornai all’ospedale Forlanini a Roma per una visita di controllo, mi recai subito il martedì nella cappella per incontrare i fratelli della Comunità. Questi, quando mi videro in così buona forma fisica, mi abbracciarono commossi e mi invitarono a fare insieme a loro una preghiera di ringraziamento, nel corso della quale una sorella mi disse: «Il Signore ti ha guarito da una cisti epatica».

Pensai subito che fosse un po’ pazza e al termine della preghiera la affrontai con arroganza, dicendole che il mio fegato, come aveva accertato una TAC fatta 2 giorni prima nello stesso ospedale, non evidenziava la presenza di alcuna cisti. Lei mi rispose allora: «Questo mi ha suggerito lo Spirito e questo ti ho detto». Dubbioso salutai tutti e chiesi loro di continuare a pregare per me.

Tornato a Palermo il mio primo pensiero fu quello di andare a controllare tutte le cartelle cliniche precedenti e così lessi nel referto di una di esse, fattami proprio al Forlanini durante il mio primo ricovero, la seguente diagnosi: “cisti epatica di 1 cm. al VI segmento”. Chiesi allora di essere sottoposto subito a un nuovo esame ecografico, ma il risultato della nuova indagine non evidenziò la presenza al fegato di nessuna cisti. Alla mia insistenza, essendo il radiologo un mio amico, mi accompagnò in un altro laboratorio, dove vi era un apparecchio ecografico ancora più sofisticato; ma il risultato fu lo stesso: la cisti, che nel referto dell’ospedale Forlanini si evidenziava, adesso non c’era più!

Voglio ringraziare tutti quei fratelli della Comunità che hanno pregato Gesù affinché mi guarisse e voglio chiedere loro scusa per aver pensato che fossero dei “pazzi fanatici”.

Giuseppe – Palermo

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