IL PERDONO DI DIO MI HA RIDATO LA VITA

La sua misericordia è intervenuta a sanare la situazione di morte in cui ero precipitata a causa dei rapporti immorali, del tentativo di suicidio e dell’aborto.

Fin da piccola ero spinta da una fame d’amore che mi gettava tra le braccia dei ragazzi prima e degli uomini dopo, a cui davo tutta me stessa, convinta di ricevere così ciò di cui avevo bisogno: affetto, amore, tenerezza…

La mia personalità eccentrica, il mio modo d’essere avevano creato attorno a me un mito: ero additata, schernita come una ragazza facile, una che si concedeva allegramente a tutti e senza pensiero. Avevo solo 17 anni e con quella “etichetta” appiccicata addosso, vivevo, sorridevo, studiavo… la mia reputazione però era immeritata perché non solo ero vergine ma, in campo sessuale, ero molto più pudica e innocente delle mie amiche o della maggior parte delle mie coetanee. Ben presto maturai un forte disprezzo verso me stessa e una tendenza all’autodistruzione che mi spinse a fumare spinelli e al bere tanto da stordirmi, per poter urlare il mio dolore.

Tentai perfino di suicidarmi, un giorno, in una discoteca: da alcune tubature usciva una schiuma sintetica che iniziò ad avvolgerci e io, invece di salire su un gradino più in alto, quando la schiuma era arrivata al mento, mi lasciai cadere per terra … Non so chi mi tirò fuori.

Quando iniziai l’università, cominciò la girandola degli uomini e del sesso.

Ogni volta mi dicevo di essere innamorata, forse per giustificare ciò che mi stava conducendo lentamente alla morte. Poi, quando ormai non ero più in grado di ingannarmi, riconobbi la mia incapacità di dire “no” e, dopo tutti quegli anni trascorsi a essere insultata, pensai anch’io di non essere una brava ragazza. Non riuscendo a comportarmi diversamente, persa ormai la speranza di poter incontrare un uomo che mi potesse amare e rispettare, immaginavo di crescere passando da un uomo all’altro, sprofondando nell’abisso della solitudine.

Ero come una mendicante, con un cuore giovane ma già lacerato da ferite profonde.

In quegli anni bui, tra il bere e il fumare canne incontrai un uomo separato con figli. La sua situazione non mi disturbava perché ormai mi reputavo fallita, finita, marcia. Avevo circa 23 anni e mentre lui si innamorò follemente, per me un uomo valeva l’altro: prendevo quello che mi si offriva. Un giorno, durante un rapporto sessuale, per legarmi a sé, decise di mettermi incinta.

Tenni la mano sul mio ventre per circa due mesi e mezzo. Sentivo il mio bambino. E mentre gli parlavo accarezzandomi la pancia, mi recavo in ospedale per abortire. Lì mi negarono il cibo e mi lapidarono, infermiere e dottori, con gli sguardi, mi negarono perfino le lenzuola pulite perché, essendo “quella che doveva abortire” (così mi chiamavano da un capo all’altro della corsia), mi erano sufficienti quelle che avevo già trovato sul letto. Unico conforto: una mia amica, la sua mano e le sue lacrime. Finì così.

Mi negai di piangere, di provare dolore. Mi negai ogni emozione: con il mio bambino, avevo ucciso anche me stessa.

Disperata, imploravo da Dio un’altra possibilità per riparare, per dimostrare a me stessa e a Lui che ero in grado di scegliere diversamente. In maniera più o meno consapevole, questa opportunità si concretizzò un anno dopo, con un nuovo convivente e padre di due bambine.

Ero di nuovo incinta. Stavolta, nella sala parto, non c’era nessuno con me: ebbi un’emorragia per due giorni e rimasi tutto il tempo sola con la mia scelta. Nell’orecchio mi risuonavano le parole che i miei genitori mi avevano detto quando mio fratello, molto giovane, era diventato padre: “Se l’avessi fatto tu, ti avremmo ucciso”. Rividi la loro disperazione e il loro dolore e questo mi convinse ancora di più che non avevo la possibilità di scegliere diversamente. Preferivo soffrire io, ma non infliggere un simile colpo a loro.

Da quel momento per me non esiste più la vita. Se prima mi condannavo, da quel momento mi sentii crocifissa. Non avevo più il coraggio neanche di fermarmi davanti al portone di una Chiesa, tanto era l’orrore dei crimini da me commessi. Né ero più capace di riconoscere in me la presenza di un cuore e di un’anima: dannata per sempre, fuori dalla comunità dei credenti e dal perdono di Dio. Come una barbona raccoglievo quello che gli altri buttavano via. Mi vergognavo del fatto stesso di essere viva.

Finita l’università cominciai a insegnare in una scuola cattolica. E lì, le Messe a cui si doveva partecipare, le festività religiose, l’Angelus ogni giorno, il Rosario, le suore, l’ascolto del Vangelo, la presenza costante del prete e delle sue parole sulla misericordia di Dio, fecero riaffiorare in me una speranza che mi spinse a confessarmi. Tramite quel sacerdote, che non ebbe per me nessuna parola di rimprovero, mi sentii alleggerita dai miei dolori.

In quello stesso periodo conobbi un ragazzo che mi parlò della Comunità Gesù Risorto e di come il Signore mi avrebbe potuto guarire.

Fin dal primo incontro di preghiera, il Signore mi afferrò l’anima, in modo inspiegabilmente dolce, forte e persistente e fu con una profezia che dette inizio al mio lungo processo di guarigione e di liberazione: “Prima ancora di formarti nel grembo di tua madre, io già ti conoscevo”.

Allora era vero: Dio mi amava e non aveva orrore di me.

Al primo Convegno a cui partecipai, Dio continuò la sua azione attraverso una forte preghiera di liberazione, intervenendo con la sua potenza; e l’anno dopo, quando mi chiesero di svolgere il servizio di iniziatrice di Comunità, che accettai per non mettere in discussione l’invito del Signore, Lui continuò a liberarmi e a guarirmi nel cuore e nel corpo, rendendo nuovamente feconda la mia anima, facendo germogliare in essa il senso della maternità, donandomi la forza di andare a vivere per conto mio, senza più la paura di farmi del male, né più la paura della solitudine.

Il frutto più maturo di questo cammino si manifestò al Corso dei Responsabili, dove decisi di testimoniare. Mentre donavo il mio passato, Gesù mi liberava dalla paura del giudizio degli altri, mi puliva da tutti gli sguardi offensivi che si erano posati su di me, mi guariva dall’odio e dal disprezzo per gli uomini, mi guariva dal rancore per i miei genitori.

Per quello che ha fatto, per la mia vita, per le mie scelte, per il mio dolore, io lodo il Signore ed è proprio nella lode che sto imparando ad accogliere il dolore, a non rifiutarlo e a farne strumento per ascoltare gli altri.

Ringrazio il Signore per i mille modi in cui mi ha soccorso e mi soccorre: per la gioia di dare il nome a Tommaso e a Sara, i miei due figli; per il servizio della responsabilità che svolgo e che mi aiuta a non “cedere”; per l’aiuto dei fratelli del pastorale che cento e cento volte hanno messo da parte i loro bisogni per i miei e, se prima svolgevo il servizio come se fosse un dovere, ora Dio mi ha aperto il cuore agli altri, facendo cadere la barriera che mi impediva di amare e di avere fiducia.

So che Lui mi protegge dal male e che mi tiene sul palmo della sua mano. E mai mi abbandonerà.

Grazie, Gesù, perché hai trasformato il mio dolore in danza e lo hai inchiodato alla Croce.

Grazie, Maria Vergine, che tanto hai pregato per me, Tu che avendo perduto il Figlio puoi capire il mio dolore di “madre non nata”.

Grazie, Padre mio, perché mi hai donato un cuore non solo capace d’amore, ma soprattutto capace nuovamente di sognare e di credere nei desideri: ogni morte e disperazione, infatti, sono state trasformate da Te, mediante il tuo Spirito Santo, in risurrezione e gioia. Amen, alleluia!

Testimonianza firmata

IL NON PERDONO È IL MARCIO DENTRO DI NOI…

Sono stato operato all’orecchio due volte, perché mi si era formata una “palla di catarro” che si muoveva dall’orecchio all’interno del naso, senza poter uscire. Entrambi le operazioni non avevano risolto niente e così mi c’ero dovuto abituare.

Quando correvo sentivo questo catarro che si muoveva, impedendomi di respirare bene; così pure se stavo sdraiato. Però non c’era rimedio: soffiavo il naso, ma non usciva mai niente.

Un giorno, mentre stavo a casa, mi sono messo ad ascoltare una cassetta di padre Tardif che parlava di guarigioni, spiegando che occorre guarire prima di tutto nello spirito e che, perché questo avvenga, bisogna iniziare con il perdono.

Dentro di me ho pensato: “Ma io non ce l’ho con nessuno… forse questa mattina mi sono un po’ arrabbiato con un ragazzo che mi ha fatto un lavoro e poi mi ha alzato il prezzo… allora lo perdono”.

Ma poi il Signore ha illuminato la mia coscienza, perché da solo non ci sarei mai arrivato. Ho ripensato ha mio padre, che si era separato da mamma alcuni anni fa. Io credevo di non avercela con lui; pensavo che era andata così… invece in quel momento (soltanto in quel momento) ho scoperto che avevo rancore verso di lui, che aveva lasciato moglie e figli, e mi sono accorto che dentro al cuore non riuscivo nemmeno a chiamarlo “papà” e tantomeno a pregare per lui!

Così quella sera ho pregato per lui. Poi, siccome non riuscivo a respirare bene, come al solito, mi sono alzato per soffiarmi il naso e mi è uscito il catarro! Dopo anni! Era un pezzo grosso, scuro e puzzava di marcio, e ho capito che praticamente il non perdono è il marcio dentro di noi.

Marco – Parr. “S.Cuore di Gesù” – Guidonia

I GESTI CONCRETI DEL PERDONO

Erano ormai anni che mio marito soffriva di una depressione tale che dovette perfino rinunciare al lavoro e alla guida della macchina; in casa la vita era diventata un inferno.

Qualche anno fa un’amica mi invitò a una preghiera comunitaria, io cercai di coinvolgerlo e anche se all’inizio lui tentennava molto, con il tempo riuscii a portarlo perfino al Convegno.

Partecipammo poi al seminario e io vedevo mio marito sempre più tranquillo e sereno. Il giorno in cui abbiamo ricevuto l’effusione dello Spirito Santo ci siamo sentiti molto felici e lui ha ringraziato il Signore testimoniando la sua ritrovata serenità.

Durante tutta la giornata Gesù mi ha fatto sentire la sua presenza; ero certa che in ogni momento doloroso della mia vita era sempre stato con me; nella preghiera gli offrii tutte le sofferenze, anche quelle infertemi dalla sorella di mio marito, e poiché era molto malata chiesi al Signore di trasformare tutto il male ricevuto in una grande benedizione per lei e per la sua sofferenza.

Raccontai ai miei responsabili che nonostante l’avessi perdonata non mi sentivo pronta ad andare a trovarla, ma fui subito incoraggiata a non temere. Il giorno seguente questo fu il mio unico pensiero e andai.

Lungo la strada più lodavo il Signore e più l’oppressione del cuore si alleggeriva facendomi sentire libera. Mi avvicinai al suo letto, la baciai abbracciandola e le detti il mio perdono, fu un momento di grande commozione; da qual giorno è passato più di un anno e mia cognata è guarita, viene in preghiera ed è diventata un’altra persona.

Non potrò mai finire di ringraziare Dio, perché mi ha fatto sperimentare quale potenza abbia il perdono.

Michelina – Parr. “S. M. del Carmine” – Monopoli

IL PERDONO VIENE PRIMA DELLA GUARIGIONE…

Mi sto recando all’ospedale “S. Eugenio” per eseguire alcune analisi e, mentre varco il cancello, sento la voce dello Spirito dentro di me che mi invita a pregare per qualcuno che è ricoverato lì dentro. Temendo che si tratti di una mia suggestione, e non sapendo d’altra parte come dare seguito a questo invito, chiedo un’ulteriore conferma… ed ecco venirmi incontro Irma, una sorella della mia stessa Comunità, che proprio in questo ospedale svolge il suo servizio di infermiera. Mi accoglie con grandissima gioia, come un dono del Signore, perché c’è da pregare con urgenza su Pasqualina, ormai in fin di vita; poi mi porta da lei.

La situazione è disperata. Pasqualina ha già perduto la sua bambina all’ottavo mese di gravidanza e, a causa di una occlusione intestinale non diagnosticata per tempo, sta morendo di setticemia. All’origine di tanti problemi l’intervento subìto tre anni prima per la riduzione di un tratto di intestino, dovuto alla necessità di perdere peso.

Preghiamo per lei e subito lo Spirito Santo si manifesta con un grande calore, mentre in visione mi fa comprendere che la guarigione sta già iniziando. E infatti, in breve tempo, le condizioni di questa sorella migliorano a tal punto che i medici decidono di sottoporla a un nuovo intervento, questa volta teso a riallungare l’intestino! Paura, sgomento, rifiuto da parte di lei… ma poi, in seguito ad altre preghiere che fanno crescere la sua fede e la sua fiducia nel Signore, alla fine acconsente. Otto ore di operazione, durante le quali le condizioni di Pasqualina tornano a farsi disperate, a causa della bile che si è diffusa per tutto l’organismo.

Noi non siamo disperati, ma certo siamo molto confusi: che cosa volevi da noi, Signore? Perché ci hai dato allora quei “segni” di guarigione? Che cosa dobbiamo fare ancora?

Torniamo in ospedale. La mamma di Pasqualina è in lacrime, perché per la figlia non c’è ormai più nulla da fare; anche numerosi parenti sono arrivati da fuori Roma per darle l’ultimo saluto.

Preghiamo di nuovo su di lei e di nuovo avvertiamo questo forte calore e altre manifestazioni che ci conducono a credere ancora che Dio vuole guarirla… però prima deve perdonare! Glielo diciamo e lei ci risponde che già ha cominciato a farlo, riconciliandosi con alcuni parenti con i quali era in contrasto ormai da alcuni anni.

Qualche giorno ancora e Pasqualina è fuori pericolo!… Ma rimane sempre la necessità di allungare questo intestino che ora, però, inspiegabilmente, sembra essere integro per un buon tratto. Anche questo nuovo intervento dura parecchio e noi ci chiediamo perché mai questa creatura debba affrontare quest’ulteriore prova. Poi il Signore ci illumina e comprendiamo: Gesù, prima di donarle la guarigione fisica definitiva, ha voluto guarirla profondamente nello spirito, portandola a un perdono completo e generale con tutti gli altri suoi familiari e con i datori di lavoro, come infatti è avvenuto nei giorni immediatamente precedenti all’ultima operazione.

Ora Pasqualina è perfettamente guarita (i medici la chiamano “la miracolata”!), sta bene ed è diventata un forte strumento di annuncio per i suoi parenti che, per la sua vicenda, sono tornati anch’essi al Signore.

Paola – Parr. “S.Giuseppe da Copertino” – Roma

IL PERDONO CI HA DONATO UN UNICO LINGUAGGIO…

Ero andato a Chianciano controvoglia, giusto per portare mia madre al Convegno. Veramente lei, per non essermi di peso, aveva proposto: “Vado col treno”, ma io avevo risposto: “No, ti ci porto io. Magari subito dopo me ne torno a Roma”. Invece sono entrato nella tenda con tutti gli altri. Mi rimaneva però nell’anima come uno strascico, una patina di malumore e di risentimento.

Il primo giorno non ho partecipato alla preghiera; ho parlato sempre, disturbando i miei e quelli che ci stavano vicini. Poi però ho cominciato a sentire l’amore di Dio e ho pianto. Erano tre anni che non accadeva; le lacrime erano dolorose ma mi liberavano.

Il giorno seguente è accaduto di nuovo; questa volta però, il pianto era dolce. Ho telefonato a mia moglie, chiedendole se voleva venire; poi sono andato a prenderla a Roma e subito siamo tornati insieme a Chianciano. La mattina dopo il risveglio è stato bellissimo, con la lode di Dio nel cuore e sulle labbra. Ho abbracciato mia moglie teneramente, come non facevo da mesi; “Ti abbraccia il Signore” le ho detto e non c’è stata in lei meraviglia.

Rimaneva il problema di Daniela: era stata la moglie di mio fratello, poi si erano separati e quella dolorosa vicenda giudiziaria aveva scavato un solco di risentimento fra le nostre famiglie. In tenda, senza che nessuno lo volesse, proprio lei è venuta a capitare nel posto davanti al mio. Così, quando durante la preghiera ci è stato chiesto di piegare le ginocchia del cuore, sono caduto in ginocchio tenendo la testa di mia cognata fra le mani. Non me ne rendevo conto del tutto: piangevo, parlavo in lingue, farfugliavo…

La preghiera è durata a lungo, legati l’uno all’altra, nel gemito, nelle lingue, nel pianto e nel canto. Quando alla fine ci siamo staccati: “Ti voglio bene” le ho detto;

“Lo so” mi ha risposto lei semplicemente. Ci eravamo capiti nelle lingue.

Pasquale – Parr. “SS. Sacramento” – Roma

 

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