“UN SOLO DIO, PADRE DI TUTTI”

 

In una certa misura quasi tutte le religioni si rivolgono a Dio invocandolo anche con il nome di Padre, ma nel modo cristiano di intendere la paternità di Dio ci sono tratti di novità che soltanto Gesù ci ha rivelato. Gesù è il “rivelatore” del Padre: prima di Lui nessuno aveva osato chiamare Dio “papà, babbo”; Lui invece ce lo ha rivelato così: Dio è papà, papà nostro!

E non soltanto ce lo ha rivelato, ma per il dono del Battesimo ci ha fatto diventare in Lui figli di Dio, innestandoci in questa nuova e trascendente realtà che è la partecipazione gratuita alla vita divina, come vita santa, beata e perfetta. Lui ci fa passare da “figli dell’ira” a “figli della misericordia”, da figli del peccato a figli di Dio; in Lui da stirpe di peccatori diventiamo generazione di santi, santi della stessa santità di Dio.

 

Dal giorno del nostro Battesimo lo Spirito di Gesù che è stato effuso nei nostri cuori ci rende capaci di dire: “Abbà, Papà , Babbo!”, di sentirci figli e di comportarci come tali. “Abbà, Papà” è anche il grido della preghiera cristiana, un grido che esce dall’intimo del cuore: il grido che lo Spirito di Dio suscita in noi, come suscita nel cuore di Cristo l’esclamazione di amore al Padre.

È il grido del Figlio che eternamente ama il Padre, come l’unica fonte del suo essere: “Babbo mio, vita mia, mio tutto!”. Un grido di confidenza e di abbandono totale, perché nel Padre il Figlio trova tutto il senso e il sostegno del proprio essere. È il grido di Gesù risorto, vittorioso sul peccato,  sulla morte e sul male. E così è anche per noi: nel momento che esclamiamo: “Abbà, Papà”, ogni potenza del male si allontana, perché questo grido afferma la nostra appartenenza di figli al Padre. È un grido pertanto che proclama la vita immortale, la resurrezione, la liberazione, la guarigione.

Dunque il primo frutto della presenza dello Spirito è questa voce del Figlio in noi che grida “Abbà” e ci fa trattare Gesù come il fratello primogenito che ci conduce al Padre.

Siamo figli e quindi veniamo introdotti nel vortice fecondo ed eterno della Trinità; ma non sappiamo come questo nostro essere figli maturerà: solo quando il Signore tornerà capiremo che cosa voglia dire veramente. Già da ora però siamo abilitati dallo Spirito a vivere il nostro rapporto con il Padre, perché lo Spirito trasfigura queste povere convegno1999creature che siamo noi e ci rende capaci di entrare nel suo cuore, per assaporare tutta la sua tenerezza e la sua misericordia.

Non siamo giunti ancora, dunque, alla pienezza della figliolanza, ma siamo figli chiamati a crescere, a passare dall’infanzia alla maturità e dalla maturità alla pienezza. Ora, se è vero che dobbiamo vivere da figli già da adesso, senza aspettare l’eternità, non dobbiamo però mai dimenticare che noi siamo figli “in Gesù”, il Figlio: da qui la necessità di alimentare la nostra comunione con Lui, di lasciarlo entrare sempre di più nel circolo della nostra esistenza, perché possa nutrirci di Sé e assumerci nella sua identità di Figlio.

Noi dobbiamo contemplare di più questo Signore santo e benedetto che è Figlio da tutta l’eternità, per essere coinvolti nel suo mistero di Figlio. E questa contemplazione non è un “dolce far nulla”, ma piuttosto è un consegnarsi in piena coscienza a questo Signore santo, che ci assume nel suo dinamismo di Figlio e ci presenta al Padre mentre Egli stesso si presenta a Lui e gli chiede che accolga anche noi come figli.
Gli atteggiamenti filiali di Gesù
Per questo è necessario che meditiamo maggiormente anche sugli atteggiamenti filiali di Gesù. La prima cosa che colpisce nella sua vita è quel lungo periodo prima della sua missione pubblica: 30 anni di silenzio, in attesa di un’“ora” che solo il Padre conosce. Un tempo molto lungo, che Gesù accetta in umiltà e adorazione, insegnandoci così una cosa fondamentale per la nostra vita, che non deve essere dominata da atteggiamenti di intransigenza e di impazienza, come se la conquista del Regno dovesse avvenire nel giorno, nell’ora e nel modo che pensiamo noi. Invece dobbiamo seguire un Signore mite e mansueto, un Re che, al contrario dei re di questo mondo, orgogliosi e potenti sui loro cavalli, si fa portare da un asinello.

Un altro atteggiamento filiale di Gesù è quello della completa sottomissione alla volontà del Padre: pur essendo Dio non dimentica mai di essere Figlio, né si sente diminuito o condizionato da questa misteriosa dipendenza dal Padre; anzi, solo la volontà del Padre conta in Lui: questo è il suo cibo, la sua bevanda, il suo ambiente vitale, l’unica ragione della sua vita e della sua missione presso gli uomini.

Obbedienza che dà la sua prova più alta nel momento della dolorosissima agonia di Gesù, insegnandoci ad essere figli anche e soprattutto nel momento del dolore, dell’abbandono, dell’angoscia che il cuore dell’uomo prova davanti alla morte. Gesù non ritorce questa angoscia contro il Padre, quasi incolpandolo di avergli donato una vita che ora sta precipitando verso la morte; anzi, nel momento del dolore il Padre è per Gesù il confidente a cui rivolgere l’invocazione estrema: “Abbà, Papà”, fidandosi senza riserve del suo disegno, per quanto oscuro e misterioso possa essere.

Gesù non guarda l’apparente abbandono da parte di Dio, ma rimette la sua anima nelle mani del Padre; anche nel momento in cui il buio copre tutta la terra e il velo del tempio si squarcia nel mezzo, Egli grida: “Papà, nelle tue mani affido il mio spirito!”.

Dunque il nostro cammino nel diventare figli va consumato nel vivere e nel dire: “Padre, sia fatta la tua volontà e non la mia”. E questo non è sempre facile, soprattutto quando fare la volontà del Padre significa andare contro i nostri desideri, contro tutto quello che piace a noi. Teniamo presente che la volontà di Dio comunque è sempre amore, perché Dio è amore, sempre; anche quando le apparenze possono dirci il contrario. Anche nella sofferenza spirituale, nel buio del nostro “deserto”, nell’assenza di consolazioni, nella malattia fisica, nella perdita di persone care, in tutto questo Dio è amore. Qui sulla terra non sempre riusciremo a comprenderlo, ma quando lo vedremo faccia a faccia allora sapremo con esattezza che in ogni nostra vicenda Dio per noi era amore.

Un altro atteggiamento filiale di Gesù è quello di ammirazione, di lode e di adorazione per il Padre. E l’adorazione sicuramente è il vertice della preghiera, perché è il riconoscimento della signorìa, della gloria e della trascendenza di Dio. Gesù non solo adora il Padre, ma convoca in questa adorazione i suoi discepoli perché con Lui lodino, benedicano, glorifichino il Padre. Nel colloquio con la Samaritana ci ha insegnato che il Padre va adorato “in Spirito e verità”, che potremmo anche tradurre “in amore e fedeltà”. Il Padre è in cerca di tali adoratori,  quelli cioè che praticano verso di Lui un amore fedele e che si consacrano alla sua stessa opera di salvezza. Dunque siamo invitati ad adorare Dio in Spirito e verità, senza accampare diritti e confessandolo Signore, lieto e beato nella sua gloria.

Gesù, ancora, vive tutta la sua vita nel desiderio del Padre. Nella misura in cui si conosce Dio Padre, non si può far a meno di desiderarlo; e Lui, il Padre, si fa conoscere a noi per un motivo di comunione, cioè di incontro. Per questo oltre al dono della fede ci fa quello della speranza, che è poi il dono del desiderio di Dio. Il desiderio del Padre: che cosa meravigliosa! Questo desiderio deve riempirci di stupore e al tempo stesso ci deve far vedere come siamo sciocchi quando ci lasciamo imprigionare dai desideri banali, da tutti quei piccoli attaccamenti, dalla ricerca di piccole soddisfazioni, dalle piccole nostalgie. A volte come ci sprechiamo! Siamo fatti da Dio per Dio e poi siamo anche capaci di desiderare qualunque stupidità che il mondo ci propone.
Viviamo anche noi desiderando il Padre
È  il Signore che ha messo nel cuore di ogni cristiano il dono soprannaturale di desiderare il Padre. Fuori dal Cristianesimo il desiderio di Dio è accompagnato dalla paura di Dio. Invece per noi Cristiani, dopo che Gesù ci ha rivelato il Padre e ci ha fatto dono della Speranza, non è più così. Il pensiero del Padre celeste non ci spaventa più, ma al contrario ci seduce, ci consola, ci riempie di beatitudine.

È importante però che questo desiderio di Dio cresca di più in noi, e il primo passo per crescere nellpregh2a speranza e quindi nell’aumento del desiderio del Padre è quello di far ordine nei nostri desideri umani. Ed è qui il punto dolente, perché le cose di questo mondo si fanno desiderare attraverso l’immediatezza della loro visibilità e la concretezza con cui possiamo farne esperienza. Mentre Dio è invisibile e la possibilità di farne un’esperienza concreta è legata alla fede.

Comunque è evidente che, fino a quando questa nostra natura viene lasciata a briglie sciolte, questi desideri più esteriori e immediati avranno sempre la meglio sui desideri di ordine spirituale. Senza un lavoro costante e impegnativo, senza una vera ascesi spirituale del desiderio, saremo sempre come quei bambini che antepongono il divertimento allo studio.

Dobbiamo dare invece compostezza ai nostri desideri, creare una certa gerarchia in tutto questo groviglio di desideri scatenati che siamo noi. Dobbiamo mettere ordine, sapendo ricorrere alla temperanza e, quando occorra, alla rinuncia: solo così, a poco a poco, attraverso questo lavorìo di dominio di sé, affiorerà la speranza, emergerà il desiderio del Padre. Tutti i Santi hanno visto nella speranza cristiana un principio di purificazione dei desideri dell’uomo, di quel distacco di cui il Vangelo parla.

Dobbiamo poi impegnarci a desiderare il Signore anche in modo esplicito. È una forma di preghiera, quella di “desiderio”, che ha poi un’importanza grandissima nella vita spirituale. Dobbiamo nutrire questi desideri espliciti di Dio mediante le circostanze concrete della vita. Per esempio  la mattina, vedendo sorgere il sole, dirò: “Signore, è bello, grazie per questo dono; io però ho bisogno di Te, sei Tu il mio sole!”. Abbiamo avuto una delusione? Allora dirò: “Signore, Tu solo non deludi; grazie, ho tanto bisogno del tuo amore!”. Se facciamo così, a poco a poco avverrà un totale capovolgimento nella nostra interpretazione della vita, fino a diventare noi stessi un desiderio vivente di Dio.

Che questo dono della beata speranza cresca in noi, affinché cresca di conseguenza il desiderio del Padre e alimenti in noi anche il senso della Paternità di Dio, quella che ci fa essere certi che Lui  pensa ai suoi figli e li raccoglie nell’intimità di una famiglia, mettendo a disposizione tutte le sue ricchezze. E questo si chiama Provvidenza: tutta la vita dell’uomo, tutta la sua storia è guidata dalla Provvidenza, ed è bello vedere come questa Provvidenza diventa nella nostra vita esperienza commovente di Dio Padre, che non solo non ci lascia mancare il necessario, ma ci vizia anche con il superfluo.

Dobbiamo comunque avere un grande distacco per le cose di questo mondo, senza paura, perché ci fidiamo del Padre, perché crediamo che una sola cosa ci è necessaria. Non è tanto il presente che ci deve interessare, ma l’eterno. E se il presente ci interessa è solo per conquistare l’eterno.

C’è anche un altro campo nel quale dobbiamo fidarci del Padre e della sua provvidenza: è il campo della nostra vita spirituale. Davanti al Signore, è vero, siamo poveri, deboli, fragili, miserabili. Davanti a Lui emerge con forza la nostra povertà interiore, le nostre impotenze, i nostri fallimenti, le nostre volubilità, i nostri capricci, le nostre illusioni, le nostre presunzioni, i nostri propositi non mantenuti, i nostri ideali presi in giro… che “litania” interminabile potremmo fare della nostra miseria! Ebbene questa nostra miseria dobbiamo guardarla bene, fino in fondo, e poi riprendere ancora l’atteggiamento della beata speranza e dire: “Padre, questa è la mia miseria, ma so che Tu mi ami, so che Tu sei un Padre misericordioso e che non Ti stanchi mai di me!”.
Il Padre è misericordia infinita
Infine Gesù ci ha svelato il volto della misericordia, ci ha presentato il Padre come misericordiosissimo. La misericordia del Padre è la ragione ultima del suo amore (come una irresistibile capacità di commuoversi, di intenerirsi, di starci vicino) e risponde alla sua stessa natura, che è pienezza infinita di amore e di bontà. E la bontà ha un’esigenza insopprimibile, che è quella di donarsi: è proprio della misericordia voler colmare ciò che è vuoto, riempire di beni coloro che hanno la consapevolezza di non avere niente e di non essere niente; è proprio della misericordia rialzare chi è caduto, guarire chi è ammalato, confortare chi soffre.

In fondo è tutto ciò che risponde a quella specie di “bisogno” che ha il cuore di Dio di dare, di perdonare, di amare all’infinito. Dunque è la misericordia l’attributo divino che mette meglio in luce l’amore che il Padre ha per i suoi figli. Tutti i canti più belli della letteratura religiosa ebraica sono inni alla misericordia di Dio: “Canterò senza fine le misericordie del Signore”. E il “Padre delle misericordie” è toccato nel cuore dalla miseria umana e perciò si muove a pietà. Ma noi sappiamo che la più grande miseria dell’uomo è il suo peccato e la misericordia del Padre sul nostro peccato si chiama perdono.

Teniamo presente che il peccato non solo è un male, ma è il male più grande qui sulla terra. Chi lo commette si allontana da Dio e si abbandona al disordine delle passioni, coprendosi di vergogna con i vizi più abietti. Di fronte al peccato ci poniamo spesso questa domanda: come può Dio lasciare che l’umanità sprofondi nel male? Se il mondo è sua creazione, perché non interviene più spesso per renderlo più abitabile? Se Egli stesso è Santo, perché permette agli uomini di svilirsi con la loro condotta e di provocare agli altri danni incalcolabili? Perché non arresta il dilagare di tanti orrori? Come può un Padre lasciare che si compiano atti che danneggiano i suoi figli? Qual è la risposta a questi interrogativi?

È vero che Dio avrebbe potuto impedire il male nel mondo privando della libertà personale gli uomini che aveva creato (in tal modo le creature non avrebbero potuto opporsi a Dio commettendo il peccato); però simili creature non avrebbero posseduto la dignità, che è stata concessa a noi uomini in virtù della libertà del nostro agire e della responsabilità del nostro comportamento. Avremmo quindi vissuto una vita qualitativamente inferiore.

Il Padre non ha voluto creare dei burattini, automi “destinati” a compiere la sua volontà; nel creare gli uomini, ha voluto invece dei figli, che rispondessero liberamente al suo amore. Chi potrebbe rimproverargli questo gesto di amore generoso? Sapeva che, concedendo la libertà agli uomini, questi avrebbero potuto ribellarsi contro di Lui, ma la bontà del Padre ha voluto fare appello solo a volontà libere.

Il Padre comunque è il primo a “soffrire” per i peccati che noi commettiamo, in quanto costituiscono un’offesa che ferisce il suo amore; tuttavia è pronto a perdonarci non appena ci pentiamo. Il suo affetto paterno è più forte dell’opposizione che incontra.

Nell’insegnamento di Gesù questo affetto viene descritto in modo avvincente nella parabola del Padre misericordioso. Nella sua brevità il racconto lascia intuire la ferita inflitta al Padre dal figlio minore, il quale, chiedendo la sua parte di eredità, dimostra di avere interesse solo per il denaro e per i piaceri che esso può procurare. Per questo figlio il Padre è morto; è morto nel suo cuore.

Ma, nonostante il dolore che prova, il Padre tuttavia soddisfa la sua richiesta e divide le sostanze tra i due figli, manifestando una generosità che ci lascia perplessi e che permette al giovane di sperperare stupidamente la propria eredità. Ma questa è la generosità del Padre celeste, che concede i suoi benefici anche a coloro che ne fanno cattivo uso. Il Padre concede agli uomini la libertà e non la toglie a chi si smarrisce. Non vuole accanto a sé degli schiavi; quello che desidera dai suoi figli è un amore libero.

Dice poi la parabola che questo figlio, lontano dal Padre, sperperò tutti i suoi averi, vivendo in modo dissoluto. Quando si esce dal circuito dell’amore ci si impoverisce subito: è il dinamismo perverso del peccato che, dopo un momento di ebbrezza, lascia nel cuore un fondo pesantissimo di amarezza. Anche questo giovane ne sperimenta l’inganno: il castello fatato che aveva sognato diventa un porcile, dove avrebbe voluto saziarsi almeno con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. E questo “nessuno gliene dava” indica a che punto il mondo del peccato sia duro ed egoista. L’illusione è finita: lontano da casa si sta male: lontano dal Padre la vita non è più vita; lontano dal Padre si spegne ogni barlume di gioia; lontano dal Padre si muore… Lontano da Dio è la morte!
Nella casa del Padre, familiari di Dio
Subentra così il pentimento, che si esprime  nella decisione di ritornare dal Padre (è questo l’“iter” che deve seguire nella vita cristiana qualsiasi atto di pentimento) e quindi la decisione di chiedergli anche perdono per il peccato che ha commesso. E se al momento di partire il giovane aveva avanzato delle pretese, al ritorno non le ha più: sa che il suo comportamento lo ha privato del diritto di avvalersi della sua condizione di figlio e si rassegna quindi a sopportare le conseguenze dell’errore commesso.

Il loro incontro è però completamente diverso da come lo aveva immaginato, perché il Padre lo aveva atteso sempre con impazienza… ne ha compassione… gli corre incontro e gli si getta al collo, lo bacia… lui non ha mai smesso di amare e di considerare questo giovane ancora suo figlio e non ha paura di manifestare il suo ardente desiderio di riabbracciarlo. La confessione del peccato non è accolta con un rimprovero: tutto viene immediatamente perdonato.

Certo che la condotta del figlio lo ha addolorato; ma ora è ancor più colpito dalla sua condizione miserevole e dalla sua disperazione, per cui si preoccupa solo di porvi rimedio, restituendogli tutti i suoi privilegi.

Il perdono del Padre comporta in tal senso una nuova creazione, un ripristino integrale della dignità filiale.

E nemmeno si limita a perdonare, ma esprime la sua gioia organizzando anche un banchetto per far festa in favore del  figlio ritrovato. E questo vuole mostrare in quale clima si concede il perdono, spiegando così la gioia che accompagna questo sacramento, riflesso della gioia che il Padre desidera condividere.

È bello sapere che abbiamo un Padre così, come quello che Gesù ci ha rivelato in questa parabola, che è forse la pagina del vangelo più luminosa sulla realtà della casa paterna, di cui anche noi facciamo parte e dove ci sentiamo figli. “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti” (Gv 14,2). Ciò significa che c’è posto per tutti e che ognuno si sente al proprio posto, a proprio agio, pur nella diversità di ciascuno; così si forma la famiglia di Dio, che ha queste caratteristiche:

* è una famiglia che vive dell’amore del Padre. La certezza che Dio ci ama è la fonte di ogni liberazione e guarigione; certezza non teorica (perché tutti lo sappiamo e lo diciamo che Dio ci ama), ma è una certezza intima, una viva convinzione dell’esperienza del suo amore.

* È una famiglia che vive della docilità al Padre: tutto ha valore secondo la volontà di Dio, secondo la sua infinita sapienza e i figli si lasciano illuminare dai pensieri del Padre, non dai propri progetti e interessi. È nell’assecondare i desideri del Padre che la famiglia di Dio trova ordine e pace.

* È una famiglia che vive nell’unità del Padre. È Lui che unisce tutti i membri della famiglia come un essere solo: gli uni negli altri, come fratelli che vivono dello stesso amore, e che vedono ciascuno nell’altro il volto riflesso del Padre.

In questa casa si vive la fraternità, e la fraternità si realizza nell’amore e l’amore lo sappiamo ha  gesti e atti particolari, profondamente cristiani, quelli che S. Paolo ci indica nell’inno alla carità: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà ma fine” (1Cor 13,4-7).

È questo l’amore che noi dobbiamo vivere, cari fratelli e sorelle: l’amore è concreto, ha gesti concreti e noi dobbiamo viverli nella nostra famiglia, nella Comunità, nella Chiesa e con ogni persona. Questo si aspetta il Signore da noi.

Dobbiamo ancora camminare e crescere nell’amore e diventare persone veramente misericordiose.

E in questo cammino nell’amore teniamo presente una cosa: che ogni nostro fratello e sorella è avvolto e difeso dalla misericordia del Padre. Per questo a volte è meglio passare per sciocchi, per incapaci; è preferibile che gli altri si approfittino di noi, pur di arrivare ad essere persone misericordiose, persone che amano veramente, fino a far diventare la nostra vita un canto d’amore. Il Cristianesimo è tutto qui; ricordiamoci che qualsiasi cosa facciamo al più piccolo dei fratelli di Gesù l’abbiamo fatto a Lui. E al termine della nostra vita solo l’amore rimarrà e sarà anche l’argomento del nostro esame finale.

* Un’altra caratteristica della famiglia di Dio è quella di vivere nella varietà dei doni del Padre, senza gelosia: ciascuno è ricolmo dei doni concessigli e ne è felice, guarda i doni presenti nei fratelli e ne gioisce, ringraziando e glorificando il Padre. Mentre noi invece conosciamo spesso la gelosia e l’invidia verso i doni che i fratelli hanno ricevuto dal Signore.
Mossi dalla nostalgia del cielo
Ma i figli di questa famiglia non sono ancora arrivati a casa, nella quale il Signore, splendente di gloria e traboccante di misericordia e consolazione, continua a convocarci.

Tutto il cammino della nostra vita è un lento e progressivo ritorno; ma quanta fatica e quanto sforzo però dobbiamo ancora fare! Le cose ci legano, frenandoci, e ci nascondono Dio. Per questo dobbiamo “strapparci” dalle cose, allontanarci da tutto, perché solo quando la nostra anima lascia dietro di sé tutto quello che amava, allora si avvicina a Dio, l’unico degno di essere amato.

Fintanto che le cose hanno un peso per noi, finché hanno un valore, noi non siamo ritornati nel paradiso di Dio. Se vedi solo le cose, non vedi Dio.

Abbiamo un Padre nel cielo che ci aspetta, ma noi siamo sulla terra; la condizione di esuli, che ci appartiene dopo il peccato, certamente pesa sulla nostra esistenza terrena. Ma questo peso, questa sofferenza non è paragonabile a quella gioia infinita che il Padre ha preparato per noi.

Ora il Padre è provvidenza ed è buono, ma ci fa camminare per le strade del mondo, perché attraverso un cammino fatto di deserto e di tribolazione possiamo arrivare finalmente alla libertà e alla vita. Questo rende il nostro andare non un fatalistico declinare di giorni, ma un gaudioso entrare, giorno dopo giorno, nella patria vera e nella condizione definitiva oltre la morte. Allora perché ci lasciamo prendere da tanti interrogativi angosciosi sul dolore? Perché tante inquietudini, tante ribellioni nei confronti della sofferenza e delle tribolazioni quotidiane?

Cari fratelli, siate certi che i nostri giorni terreni non vanno verso il tramonto, ma verso un giorno che non avrà fine. Bisogna crederlo in modo che questa certezza diventi forza e consolazione della nostra vita.

Non possiamo comunque dimenticare che il Padre ha trattato il suo Figlio Gesù nella logica di questo mistero. Un Figlio “in esilio”; un Figlio condannato a patire e a morire. Gesù ha accettato l’esistenza terrena come Figlio obbediente conservando riconoscenza, fiducia e tenerezza per il Padre: dobbiamo tenere conto di questo esempio!

Questo nostro ritorno è dunque un cammino di rinuncia; che poi la nostra non è veramente una rinuncia, perché, quando saremo ritornati alla presenza del Padre, in quel momento ci accorgeremo che Dio ci ridona tutto quello che credevamo aver perduto!

Quello che il Signore ci ha chiesto era soltanto la libertà da ogni schiavitù, cui ci aveva costretto il peccato. Pertanto il nostro ritorno non è che un ripartire da dove ci aveva portato il peccato; è un cammino a ritroso, che va dalla vecchiaia alla giovinezza, e dalla giovinezza all’infanzia. Gesù stesso ha detto: “Se non vi convertirete e non diventerete come bambini non entrerete nel Regno dei cieli”. È una bella cosa che nella vita spirituale invece di invecchiare si ringiovanisce: si nasce vecchi e si muore bambini!

Credo che noi dobbiamo guardare un po’ di più “i cieli del Padre, la casa del Padre”, e guardarli è un movimento dell’anima, della vita, della nostra storia e della storia di tutti. Siamo figli in cammino verso casa ed è giusto pensarci per non perdere  la strada, per non mettere dimora dove la nostra dimora non è. Ora la casa del Padre la conosce solo Gesù ed ecco quindi la necessità di affidarci a Lui perché ci insegni la strada e ci conduca: è tutto molto semplice, ma suppone una fede che deve crescere in profondità. Perché questo significa  lasciarci condurre come ciechi che non vedono ancora ma sono chiamati a vedere, come creature chiamate a libertà ma ancora legate da troppe schiavitù.

Dobbiamo guardare alle “cose di lassù” ci dice S. Paolo. Ma come è possibile che la nostalgia del cielo e della vita eterna non ci prenda l’anima e non ci rapisca il cuore? Il desiderio di vedere il Signore, di incontrarlo per non perderlo più, e di conoscerlo fino in fondo così come Egli è, deve caratterizzare tutta la nostra vita.

È un desiderio questo che deve fermentare tutta la nostra esistenza. Ci pensiamo troppo poco; ci pare che la nostalgia del cielo sia una romanticheria di altri tempi, mentre in realtà è una delle esperienze spirituali più preziose, più belle.

Teniamo lo sguardo fisso verso il Padre, e quando diciamo “Padre nostro, che sei nei cieli”, il nostro spirito sappia sussultare sapendo che il Padre è la e ci aspetta. Certamente è anche qua, ma per condurci là. Attraverso Gesù, il Figlio benedetto, e attraverso quello Spirito che ci fa gridare “Abbà, Papà”, ci dona anche le ali per non restare prigionieri del tempo e diventare poi, nell’ora di Dio, cittadini del paradiso. Siamo stati creati per questo, per l’eternità, perciò sperando e invocando, supplicando e gridando al Signore che è la forza della nostra vita, a Lui ci offriamo e dedichiamo tutto e diciamo ogni giorno il nostro “Grazie, Signore”, in attesa di poter dire l’“Amen” dell’eternità e della gloria.

di Paolo Serafini

Convegno Internazionale 1999

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