“Di Paternità in Paternità”
La figura paterna terrena, anche se sarà sempre inadeguata a significare la purezza e lo splendore della Paternità di Dio, rimane pur sempre il suo simbolo più alto e vero, quello indispensabile; per questo è necessario che venga continuamente purificata alla luce della fede e della preghiera.
Stiamo uscendo dalla preghiera comunitaria tutti pieni della lode e della gioia del Signore e, alzando lo sguardo in alto, vediamo un cielo blu pieno zeppo di stelle, di un’incredibile bellezza, di quelli che si vedono solo nelle notti d’estate, in aperta campagna, lontano dalle luci e dall’inquinamento delle città. Allora mi rivolgo a una sorella vicino a me e, avvicinando due dita in un gesto caratteristico, le dico: «Vedi, io e il padrone di questo cielo stiamo “così”!». Lei mi guarda tutta ammirata e mi fa: «Beata te!». Poi ci ripensa… e scoppiamo a ridere tutte e due, perché anche lei ovviamente stava “così” con il padrone del cielo!
È solo un episodio scherzoso, ma ci fa riflettere. Pensiamo per un attimo se noi ci trovassimo in grande intimità con un personaggio particolarmente importante (con il Presidente della Repubblica, con il Papa…), noi andremmo fieri di questa amicizia, di questa confidenza; forse la “sbandiereremmo” anche un po’… Ebbene, noi siamo in amicizia, in intimità, non con un personaggio umano, ma con Dio! Con il Creatore e Signore di tutte le cose, di tutti gli esseri viventi!
E neanche si tratta solo di amicizia. Noi siamo suoi figli! E Lui è nostro Padre!
Noi siamo figli di Dio. Ed è di Lui che vogliamo parlare; non è di un tema, di un argomento (sebbene il più nobile e santo), ma di nostro Padre, della sua persona. E vogliamo farlo allo stesso modo come ora avrebbe fatto Gesù: ossia come l’unico, il solo per cui vivere e morire!
Non c’è altro modo. Dio va proclamato così: come il Padre al quale consegnare per amore tutto ciò che siamo e abbiamo; perché Lui si è consegnato a noi, in Gesù, allo stesso modo.
Il Padre si è consegnato a noi
Sì, il Padre si è consegnato a noi! Noi siamo abituati normalmente a considerare solo che Gesù si è offerto al Padre, accettando una morte così atroce e violenta, perché fossimo redenti; e per gli atei questo è addirittura uno degli “scogli” più grandi: «Perché Dio, se è vero che è Padre, ha accettato, anzi ha “preteso” il dolore e la morte di un innocente (di Colui che è l’Innocente per eccellenza)?».
Ma Gesù dice a Filippo (e lo dice a tutti noi): «Chi ha visto me, ha visto il Padre; non credi tu dunque che il Padre è in me e io in Lui?». E dice ancora: «Voi mi abbandonerete, ma il Padre mio è sempre con me».
Dio dunque non è lontano, non è assente dalla Croce. Anche se Gesù arriva a sperimentarne perfino l’abbandono, perché, sommerso come è da tutto il peccato del mondo, non può percepire ora la santità di Dio… Il Padre è là, che grida di dolore per la morte del Figlio suo amatissimo, l’Innocente, il Santo!
Non è solo Gesù che soffre! Avete mai provato un dolore così grande che le viscere sembrano attorcigliarsi, strette in una morsa, e le ginocchia sembrano venire meno, incapaci di portare il peso della nostra vita? Sì, Dio grida di dolore e le sue viscere, se così si può dire, fremono dentro di Lui.
D’altra parte non è il solo momento, nella storia della Salvezza, in cui il Padre freme di dolore: questo della Croce è il culmine, ma dal momento stesso in cui Dio ha scelto di legarsi agli uomini con un vincolo d’amore, ha accettato di esporsi continuamente alla sofferenza per amore dei suoi figli. Anzi, tutto l’Antico Testamento, scrive p. Cantalamessa, è come percorso da una sorta di lamento accorato, del Padre che si sente respinto e tradito nel suo amore; quel lamento che i Profeti hanno saputo riconoscere ed esprimere: «Ho allevato e fatto crescere dei figli, ma essi si sono ribellati contro di me» (Is 1,2).
Eppure sono sempre figli. Da recuperare all’amore, a “qualunque costo”…
Forse un Dio che grida e soffre ci scandalizza. Un Dio che “patisce”, che per amore “sceglie di soffrire” sembra venir meno a quell’idea di onnipotenza che già a stento riusciamo a comprendere… Perché soffre, Lui che può tutto? Perché non annienta semplicemente il male?
Perché, per non annientare anche noi, insieme con il male, sceglie di soffrire in prima persona: e non è questo il grado più alto dell’amore?
Non a caso i filosofi greci negavano ai loro dèi la capacità di amare veramente (tutt’al più avevano passioni…) perché l’amore non li esponesse alla sofferenza e al dolore. Ma il nostro, diceva Pascal, non è il Dio dei filosofi, ma è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe: è il Dio dei nostri padre, fedele alle promesse “di generazione in generazione”; è il Dio-con-noi, che entra nella nostra storia e si fa carne della nostra carne; è un Dio che si lascia incontrare e sperimentare, attirandoci incessantemente al suo cuore. Sì, Dio ci attira incessantemente al suo cuore di Padre, per poterci dire finalmente, a ognuno di noi: «Figlio, figlio mio, tanto desiderato e tanto amato!».
Eppure, nonostante il Padre sia arrivato a questo per noi (a offrire il suo unico Figlio, soffrendo la Passione e la Morte insieme con Lui), molti uomini continuano ancora a non riconoscere o a rifiutare il suo amore e la sua paternità.
Anzi, nella nostra epoca questo rifiuto sembra essere addirittura cresciuto. Lo dicono gli studi filosofici, le indagini antropologiche e sociali; ma è anche la nostra esperienza diretta, di anni e anni di preghiere fatte sui fratelli, e ogni volta poi il nocciolo del problema è lì: nel rifiuto, nella paura, nella dimenticanza dell’amore paterno di Dio (che ogni volta invece viene a sanare e a ridonare dignità e bellezza).
Quanti rifiuti, quante false paure, quanta indifferenza nel cuore degli uomini! Se chiudiamo gli occhi e ci poniamo in ascolto, possiamo sentire tutto questo dolore salire dal loro cuore, il senso dell’abbandono, della solitudine, dell’orfanezza… e insieme il dolore di Dio, che ancora non si sente ri-amato, e dalla finestra scruta la via, per vedere i suoi figli tornare… e, insieme, come una spinta invincibile a fare in modo che questo amore sia riconosciuto e corrisposto; che mio fratello torni… che mia sorella si getti di nuovo nelle braccia di nostro Padre, perché è questo ciò che è gradito al suo cuore.
Lasciamoci “ripartorire” da Dio Padre
Non c’è compito più grande e più urgente oggi per la Chiesa (per tutti noi che siamo battezzati) che quello di annunciare l’amore del Padre ai suoi figli. Di proclamarlo, di testimoniarlo, di attuarlo, di implorarlo… Perché poi è questo che ci fa attuare “ogni giustizia”: infatti è solo condividendo la misericordia del Padre (esercitandola verso gli altri e accettandola verso noi stessi) che possiamo scoprirci fratelli e incontrarci non sui beni materiali (come avverrebbe con una giustizia solo umana), ma in quel bene e valore più alto che è l’uomo stesso, immagine di Dio. Perché, soprattutto, la nostra missione non può essere che la stessa di Gesù: rendere presente il Padre e la sua misericordia, farlo onorare e amare (perché poi “tutto il resto verrà da solo, in sovrappiù”). Perché “Se non rinasciamo di nuovo – dice Gesù – non entreremo nel Regno di Dio”; e “rinascere nello Spirito” significa proprio lasciarsi “ripartorire” da questo Padre! Non si tratta solo di lasciarsi guarire un po’, trasformare un po’… ma proprio di essere ri-generati (generati un’altra volta).
Forse abbiamo scelto altri padri (Gesù arriva a dire ai Giudei: «Voi avete come padre il diavolo»!)… forse non ne vogliamo avere più nessuno… ma oggi, per la potenza dello Spirito che non cessa di gridare nel nostro cuore: «Abbà, Padre mio!», decidiamo di lasciarci rigenerare da Dio.
Oggi, se lo vogliamo, rinasciamo: per la parola di salvezza che è Gesù stesso, venuto ad annunciarci e a rendere possibile questa paternità, e per l’azione dello Spirito, che incessantemente ci immerge nelle acque del battesimo, come in un grembo materno.
Diciamolo a Dio, nostro Padre: «Sì, Padre, voglio ora lasciarmi rigenerare da Te! Voglio essere tuo figlio, pienamente tuo figlio. Manda il tuo Spirito a purificare la mia relazione con Te da tutti i miei tradimenti umani, da tutti gli inganni che ho ereditato dalla mentalità del mondo, da tutte le ferite che ho ricevuto nell’esperienza della paternità terrena (dei miei genitori nella carne) e che hanno condizionato il mio modo di concepire la tua paternità».
Perché, per accogliere pienamente la manifestazione della paternità di Dio su di noi, occorre che rinunciamo a tutti quegli inganni e seduzioni che il demonio ha seminato a tale riguardo nei nostri cuori.
E ne ha seminati proprio tanti! Perché questo è ciò che lui teme, questa è la sua sconfitta: che gli uomini ritrovino la via della casa paterna, ritrovino la loro dignità, e che il Padre possa recuperare, uno ad uno, tutti i suoi figli.
E anche gli inganni che forse non ci riguardano in prima persona, ci riguardano pur sempre indirettamente come figli di questa epoca, un’epoca nella quale la figura stessa della paternità è stata ed è aggredita nella sua essenza, negata, vilipesa (tanto da far affermare, agli studiosi delle cose umane, che quella verso la quale ci siamo incamminati, è ormai “una società senza Padre e senza padri”).
Tante le cause che vi hanno concorso:
* gli studi della psicologia del profondo, che talora hanno preteso di “liberare” l’uomo, di condurlo all’età adulta e al pieno governo della propria potenza di vita, attraverso la ribellione contro il padre (il quale rappresenterebbe quel fattore di “costrizione” che renderebbe l’uomo impotente a realizzare da sé la propria esistenza…).
Non ci sentite qualcosa del peccato antico? Non c’è come un’eco delle parole del serpente che ci ripete ancora oggi: «Dio non vuole che ne mangiate, perché altrimenti diverreste come Lui!»?
Eppure il desiderio di onnipotenza e di immortalità è iscritto nel cuore stesso dell’uomo (fatto a immagine di Dio, l’Eterno, l’Onnipotente) ed è quello che gli permette di credere (alla luce della Rivelazione) che egli trionferà alla fine sul male e sulla morte. Ma è solo ridando a Dio il suo ruolo di Padre che questa aspirazione potrà realizzarsi, non diversamente! Dio non è un tiranno, che sbarra la strada alla nostra realizzazione e alla nostra felicità. Dio è Padre! È quel Padre misericordioso che per amore nostro arriva a “spendere” la vita di Gesù!
Come possiamo essere così ciechi da nn riconoscere questo amore?
E allora, se lo riconosciamo, non possiamo far altro che smettere di lottare: «Smetti di lottare contro Dio! Non combatterlo più! Non volerti sostituire a Lui!».
Se il demonio continua a offrirci la sua seduzione: «Mangiate di quel frutto, ribellatevi, perché vi si apriranno gli occhi… e sarete come dèi», noi ora abbiamo la forza di rispondere no, perché abbiamo una promessa più grande da parte di Gesù: «Mangiate di questa carne e allora non “sarete come dèi”, ma “sarete come Dio”»!
Ridiamo a Dio il suo ruolo di Padre
Capite dunque l’inganno del demonio? Vuole che ci fermiamo e ci perdiamo (quello che lui non avrà mai più, non vuole che neanche noi lo raggiungiamo).
* Solo ridando a Dio il suo ruolo di Padre si possono smascherare tutte le false pretese di paternità che (offuscata quella vera) hanno finito per attribuirsi oggi il potere politico, quello economico, una certa scienza, talvolta le mode, i personaggi del momento…
Diceva lo scrittore Chesterton che “quando si smette di credere in Dio, non è che non si crede più a nulla, ma che si è disposti a credere a tutto!”; parafrasando potremmo dire che “negando a Dio la legittima paternità, non è che non l’abbiamo attribuita più a nessuno, ma che in realtà abbiamo finito per distribuirla malamente a destra e a manca, dissipandola”. Ognuno può farsi i suoi esempi.
Io ne ho uno, che mi è rimasto particolarmente impresso in fondo al cuore. Pregavamo per una ragazza, una ragazza speciale, ma che aveva molto sofferto per la mancanza (oggettiva) di paternità, fino a che era arrivata al punto di farsi male da sola, procurandosi molte ferite sulle braccia. Pregavamo dunque su di lei e a un tratto ci disse: «Vasco Rossi è mio padre!». Cioè aveva cercato una paternità, qualunque, comunque… in un personaggio del mondo rock, familiare ai giovani.
* E che dire degli odierni esperimenti di procreazione assistita, nei quali entrano in gioco più ovuli e più spermatozoi (della madre vera, di un’altra surrettizia, di un papà estraneo…). Non so se a voi fa lo stesso effetto, ma anche qui mi sembra di cogliere come un tentativo segreto, ma poi neanche tanto, di negare l’unicità di Dio e la sacralità della figura paterna e materna; di quella terrena cioè come parabola vivente di quella divina.
È un po’ come tornare, attraverso tanti padri e tante madri di un solo figlio, a tanti dèi… Ma se ci ricordassimo che tutto quello che è contro Dio, in realtà è contro l’uomo!
* C’è poi la moda, specialmente nel mondo divistico e consumistico, di fare comunque un figlio, anche senza essere sposati, magari ricorrendo alla “Banca del seme”, programmando cioè un figlio che abbia le caratteristiche particolari di quel padre, ma… senza avere questo padre!
Oppure c’è la pretesa di adottare un bambino in una “famiglia” composta da due “padri” o da due “madri”… o non si sa più come!
Dov’è Dio in queste scelte? Dove sono i suoi diritti?
Molti affermano che è un “diritto” per una coppia omosessuale quello di avere un figlio: un “diritto”?!… E dove sono i diritti di Dio? Chi salvaguardia i suoi diritti di Padre, di custodire ciascuno dei suoi figli, anche di quelli che cresceranno loro malgrado in una “famiglia” così disordinata, così difforme dai progetti di Dio e dall’immagine della Famiglia Trinitaria?
Credo che sia tempo che smettiamo di scandalizzarci solo per il male di cui soffrono gli uomini, che smettiamo di indignarci solo per i loro diritti, che talvolta non sono nemmeno tali, e che ci impegniamo invece perché siano difesi i diritti di Dio! Il suo diritto a essere Padre degli uomini, il suo diritto a essere onorato e amato. E obbedito!
E allora, e solo allora, avremo difeso davvero anche i diritti degli uomini: perché i conflitti, la guerra, la fame, l’ingiusto sfruttamento delle risorse, l’inevitabile parzialità della giustizia umana, l’oppressione politica, il declino dei valori morali, il disimpegno verso il bene comune… tutti questi mali, di cui la famiglia umana soffre e di cui, nonostante gli sforzi, non riesce a guarire, possono essere sanati.
La famiglia umana può davvero guarire, ma solo se ogni uomo accetta di essere condotto alla guarigione: «Sì, Padre, io oggi voglio cambiare vita, voglio scoprirmi figlio, amato da Te, e perciò fratello e custode dei miei fratelli, custode dei beni del Creato…». Allora oggi, attraverso di te, che ti lasci guarire, il mondo intero sarà un po’ più cambiato.
* Affinché possiamo tornare (e condurre altri) all’esperienza dell’autentica Paternità di Dio, non basta però che veniamo liberati dalle idolatrie e dai condizionamenti, anche inconsapevoli, del pensiero moderno; c’è uno “scoglio” più grande da superare, ed è quello del condizionamento che ci è venuto dalle ferite che abbiamo ricevuto nell’esperienza della paternità terrena.
E qui, in un modo o nell’altro, ci rientriamo proprio tutti. Perché non credo che esistano genitori, anche santi, che non abbiano commessi errori nei confronti dei figli; ma poi ci sono stati genitori non santi, non credenti, che si sono trovati magari davanti a una nascita inattesa, indesiderata… che veniva a complicare una situazione economica, o di salute personale, già precaria… che sono rimasti delusi davanti a noi, perché ci volevano dell’altro sesso… che hanno fatto troppi progetti su di noi, perché fossimo secondo le loro attese e non secondo le nostre capacità… che ci hanno educato con eccessivo rigore o che sono stati totalmente assenti, perché non erano in grado di sostenere il peso della loro paternità… che avevano bisogno loro per primi di essere amati, perché non erano stati a loro volta quei figli desiderati e accolti come dono…
Ma poi chi, crescendo, è diventato a sua volta genitore, non ha commesso errori diversi… forse ne ha commesso anzi qualcuno in più… se è vero, come è vero, che nei giovani di oggi, nei figli di oggi, si assiste generalmente a un distacco dalla fede che ha pochi punti di confronto con altre epoche.
Mi spiego: la figura paterna terrena, anche se sarà sempre inadeguata a significare la purezza e lo splendore della Paternità di Dio, rimane pur sempre il suo simbolo più alto e vero, quello indispensabile; i genitori che lo vogliano o no, saranno sempre portatori del volto di Dio. E dove altro un bambino dovrebbe farsi l’idea che Dio è suo Padre, se non guardando al padre terreno?
Ora un padre terreno che non conserva la sua autorevolezza agli occhi del figlio mette per ciò stesso in discussione la stessa autorevolezza di Dio e la fede in Lui!
Voi padri siete chiamati da Dio a essere autorevoli (non autoritari)! Non potete abdicare alla vostra autorevolezza.
Il Dio dei nostri padri
Ora questa autorevolezza non è data più, come in passato, dalle maggiori esperienze e capacità. Oggi (a causa del progresso tecnico-scientifico, di una maggiore istruzione, dell’accresciuta possibilità di viaggiare…) i figli normalmente ne sanno molto più dei genitori; ma, proprio perché non si fonda più su competenze umane, deve fondarsi ancora più profondamente in Dio: un padre che continua a crescere nel suo rapporto con Dio (che loda, che ascolta la voce di Dio Padre nel silenzio della preghiera personale, che cresce nell’esercizio dei carismi, vissuti e spesi per il bene comune…), questo padre rimane per suo figlio un riflesso autentico della Paternità di Dio e perciò una guida valida, verso la quale non c’è contestazione o competizione, ma rispetto, fiducia, amore.
Ma anche dove questa crescita nella paternità non ci sia ancora, i figli siano essi stessi di aiuto ai propri genitori, affinché questi possano diventare sempre di più segno e strumento della Paternità di Dio. Li aiutino con la preghiera e poi con il rispetto, che è fatto anche di sottomissione. Chiedete ora aiuto al Signore e ditegli: «Guariscimi, perché ho peccato contro di Te, quando non ti ho riconosciuto e onorato in mio padre, in mia madre. Toccami ora, tocca le mie ribellioni e le mie mancanze d’amore, Padre Santo, e cambiami il cuore».
* E infine voglio parlare della Comunità, la nostra Comunità, che per me è padre e madre.
C’è un versetto meraviglioso che ritorna più volte nella Bibbia e dice: «IL DIO DEI NOSTRI PADRI: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe…», ma poi quanti altri nomi potremmo aggiungere: santi e mistici, papi e semplici catechisti… e poi i nostri genitori e i nostri nonni… e i fratelli anziani della Comunità (molti dei quali sono già in Paradiso), fratelli che hanno creduto, hanno sperato, hanno sofferto, hanno testimoniato…, che ci hanno imposto le mani e hanno preso su se stessi il nostro dolore… che ci hanno fatto alzare gli occhi… ci hanno mostrato il volto del Padre.
Sì, noi abbiamo ricevuto un’esperienza, una forte esperienza della Paternità divina anche e soprattutto da loro, da questi nostri padri, da coloro cioè che hanno fondato e guidato la Comunità, con amore, prima di noi. Possiamo dire che ripetiamo in piccolo, come Comunità, la Storia del Popolo Eletto, così come d’altra parte avviene per ogni esperienza di Chiesa.
E questa stessa paternità ritrasmettiamo. Ci sono limiti? Lacune? Povertà umane? Invece di scoraggiarci, chiediamo ora al Signore di guarirci. Lo facciano soprattutto coloro che, come animatori e responsabili, sono chiamati a una grande purificazione personale, perché risplenda in loro il volto del Padre: «Purificaci, Signore, fa’ che accogliamo e guidiamo i tuoi figli solo verso di Te. Non c’è un altro compito; non c’è un impegno più grande. Qualunque altro atto di carità serva a questo, a dire cioè a ogni uomo: “Il Padre ti ama e si prende cura della tua vita”».
Anche qui: ogni paternità serva a svelare, pure attraverso i nostri inevitabili limiti, un’altra Paternità, quella vera, quella che rimarrà per sempre.
Ora questo risalire “di paternità in Paternità” non è solo guarigione per noi uomini (dalle ferite di una paternità terrena o da un’esperienza falsata della Paternità di Dio), ma, se così si può dire, è anche guarigione per la Paternità stessa di Dio!
La sua Paternità si appaga, è consolata per questi figli, che siamo noi, e che torniamo a Lui!
«Sì, Padre, mentre Tu “scruti senza posa i nostri cuori”, inviti anche noi a “scrutare senza posa il mistero del tuo amore di Padre”, a inebriarci di questo mistero: un mistero che, paradossalmente, dà senso a tutta la nostra vita!
Ma ancora non ci basta. Noi vogliamo aiutarti, Padre, a poter gustare ancora il ritorno di tanti e tanti figli… perché Tu possa estendere la tua Paternità a quanti ancora non ti conoscono. E così insieme con Te (dopo esserci persi l’uno negli occhi e nell’abbraccio dell’Altro) “scrutiamo la via”… perché il figlio che oggi torna trovi chi gli corra incontro per fargli festa!».
Forse noi siamo i figli maggiori, che non si sono mai allontanati dalla casa del Padre, oppure siamo i figli tornati dopo aver dilapidato la nostra vita; ma ora non è più importante la nostra storia, quello che conta davvero è se amiamo.
Se amiamo a tal punto il Padre, che non amiamo altro che quello che Lui ama, che non desideriamo altro che quello che Lui desidera: poter stringere al petto ogni figlio ritrovato. Se lo amiamo fino a somigliargli, fino a lasciarlo trasparire dai nostri volti e dai nostri gesti.
Gesù lo lasciava trasparire a tal punto da poter dire: «Chi ha visto me, ha visto il Padre!». Noi non siamo Gesù, non lo siamo ancora completamente; ma è verso questa trasformazione che siamo incamminati. Noi vogliamo essere Gesù, tutti insieme; vogliamo essere il Figlio che grida con amore al Padre: «Abbà! Abbà, Papà mio!». E poi vogliamo lasciarlo trasparire attraverso di noi, perché il mondo creda che Dio è amore! Che Dio è Padre! Padre di tutti e di ogni uomo!
E vogliamo difenderlo, davanti al mondo che lo accusa ingiustamente, schierandoci dalla sua parte, trovando le parole adatte per difenderlo appassionatamente. Perché, quando abbiamo trovato le parole per l’esterno, per il mondo, vuol dire che prima lo abbiamo già “giustificato” dentro di noi; che dentro di noi sono cadute le accuse, le ribellioni, i rinnegamenti…
«Io ti sono grata perché mi fai il dono ora di poter parlare bene di Te, davanti ai miei fratelli. Fai questo dono a tutti, Padre Santo, di poter parlare di Te e di annunziare senza posa che Tu sei amore!
E ora noi, tuoi figli, poveri, incapaci, incamminati a volte a fatica verso la tua casa, vogliamo correre verso di Te, gettarci fra le tue braccia e gridarti a gran voce: “Padre mio, io ti amo! Sono felice di essere tuo figlio! Sono felice di essere tua figlia!”.
E questa volta permetti a noi di farti festa!».
Sia fatta festa! Perché Dio non si è stancato del suo amore per gli uomini; non ci ha respinto, non ci ha trattato secondo la nostra giustizia, ma con l’immensa misura della sua misericordia.
di A. Alberta Ricci Avòli
Convegno Internazionale 1999