“Io Sono la Porta”
“Se uno entra attraverso di me, sarà salvo”
<<In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante.
Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore.
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori.
E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce.
Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei>>.
Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: <<In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. ]Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza>> (Gv 10,1-10).
Nel Vangelo di Giovanni Gesù si autodefinisce per ben due volte “porta”, cioè passaggio a una vita nuova. Lui è l’unica via che conduce al Padre, l’unico mediatore di salvezza.
Infatti la promessa della salvezza è rivolta a chi entra attraverso la porta che è Gesù. E per entrare è indispensabile fare il nostro “esodo”, cioè uscire da noi stessi, dalle creature che ci circondano, dalla patria, dalle cose. Uscire e andare verso Dio. Gesù è diventato la nostra strada. Seguendolo, noi usciamo e viviamo il più radicale degli esodi, entriamo pian piano nella nuova patria.
È Lui, il Signore, che ci conduce a uscire, è Lui che ci riconduce a entrare. È sempre Lui che realizza la nostra conversione fino in fondo, aiutandoci ad appartenere solo a Dio. Dunque dobbiamo seguire questo Signore benedetto che va! Seguire il suo passo diventa una norma di vita. Dove va il Signore? Non lo sappiamo; Lui lo sa e questo ci basta! Come bastava per i “suoi”.
Egli li conduceva dove voleva, faceva loro patire la fame, la sete, li portava nelle case di peccatori, ma loro erano con Lui! E andavano! Spesso incuranti di quanto sarebbe potuto accadere.
Ecco l’importanza di stare e vivere con Lui ogni giorno. Non allontaniamoci dal Signore; non cerchiamo di andare per conto nostro; non rimaniamo soli; non scegliamo altre compagnie: solo Lui e basta. E a Lui vogliamo dire: <<Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai!>>.
E dove andrà il Signore? Non lo dice. Ci dice solo: <<Seguimi! Vieni dietro di me, giorno dopo giorno>>. E questo è l’inizio di un cammino avventuroso, perché il Signore è sempre in cammino. Egli non ha posto radici in nessun luogo, perché tutti i luoghi gli appartengono; e anche noi, seguendolo, siamo dei pellegrini che sanno di non avere stabile dimora. Non illudiamoci di fermarci e costruire stabili dimore.
Siamo viandanti e peccatori. Per questo il nostro è anche un camminare “gemendo”: è il cammino della conversione, il processo della nuova creazione in Cristo.
È una rigenerazione che avviene passando attraverso il mistero della Pasqua, è un processo morte-vita, morte all’uomo vecchio del peccato, perché nasca e cresca l’uomo nuovo. È il passaggio attraverso la “porta stretta”, <<perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, è molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano>> (Mt 7,13-14).
Nel nostro esodo, continuamente siamo chiamati a scegliere di entrare nell’una o nell’altra porta, “la stretta” o “la larga”, la vita o la morte. Per essere salvati non possiamo entrare per un ingresso qualsiasi, ma solo attraverso Gesù. Chiunque entra per questa porta diventa una pecora del gregge di Gesù, il vero Pastore.
Sono invitati a entrare tutti e in modo particolare i peccatori, coloro che si riconoscono tali, perché l’unica condizione per essere salvati è proprio quella di entrare.
Gesù promette una salvezza che non è più liberazione dalla schiavitù dell’esilio così come è stato per il popolo d’Israele, ma offre una salvezza piena e definitiva che implica la redenzione dalla schiavitù del peccato.
Gesù è il buon Pastore, l’unico e vero Salvatore in contrapposizione a tutti i falsi messia, ai falsi liberatori e salvatori. Gesù è entrato legittimamente nel recinto del Tempio di Gerusalemme, non come un ladro o un brigante che sale da un’altra parte, ma quale Pastore vero d’Israele, così come lo descrive il profeta Ezechiele: <<Io, Dio, il Signore, dichiaro che ora io stesso mi occuperò e avrò cura del mio gregge. Lo riunirò come fa un pastore quando il suo gregge è completamente sparpagliato. Raccoglierò le mie pecore da tutti i luoghi dove sono state disperse in quel terribile giorno di tenebre, senza luce. Le radunerò da tutti i popoli e nazioni straniere dove stavano, per ricondurle nella loro terra e per farle pascolare sulle montagne d’Israele, nelle sue valli e nelle sue praterie. Le porterò a un buon pascolo, le alte montagne d’Israele saranno il loro ovile! Là si riposeranno, in mezzo agli abbondanti e rigogliosi pascoli di quelle montagne. Io stesso sarò il pastore del mio gregge e lo farò riposare in luoghi tranquilli. Lo dico io, Dio, il Signore. Cercherò le pecore perdute, ricondurrò nel gregge quelle andate lontano, fascerò quelle ferite, curerò le malate. Ma eliminerò quelle troppo grasse e forti. Io sono un pastore giusto!>> (Ez 34,12-16).
Gesù dunque è il buon Pastore che ha fatto uscire le sue pecore, liberandole dal giogo della legge e dei falsi pastori che pascono se stessi (come lo erano i farisei, i dottori della legge, i sacerdoti) e dai mercenari che fuggono al giungere del lupo.
Questo Pastore buono ci vuole tutti salvi, il suo amore misericordioso insegue e cerca noi e ci chiama col suono della sua voce. Il richiamo di quella voce ci invita ad entrare in quella Porta Santissima che è Lui stesso. E lì una Parola onnipotente ci raggiunge nella profondità del nostro essere: <<Io sono il Signore, tuo Dio…. Non avrai altri dei davanti a me>> (Es 20,23). Su questa Parola, su questo comandamento è bene che noi fondiamo tutta la nostra vita. Ora che il Signore sia Signore, e l’unico Signore, lo sappiamo bene. Ma non sappiamo fino a che punto questa verità incida e nutra la nostra vita.
Che il Signore è il Signore è una di quelle verità che penetra come una spada fin nella profondità dell’essere umano. Purtroppo noi ci facciamo l’abitudine, fino quasi a rendere questa notizia così sublime una notizia di poco conto.
I nostri progenitori caddero proprio su questa verità. La loro violazione è questa: invece di ascoltare e riconoscere quella Parola: <<Io sono il Signore, tuo Dio>>, tesero l’orecchio a un’altra voce che diceva: <<Sarete come Dio>> (Gen 3,5). Questa è la costante tentazione di ogni essere umano. È l’insidia, è il peccato.
Dio è nostro
e noi siamo di Dio
<<Io sono il Signore tuo Dio…>>: come può Dio essere il nostro Dio? Sappiamo che Dio è verità, amore e vita eterna.
Allora Egli diventerà “nostro” solo se la verità che Lui è diventerà la nostra verità, l’amore che Lui è diventerà il nostro amore e la vita che Lui è diventerà la nostra vita. Il Signore che ha fatto tutte le cose e tutte le mantiene in vita dice a ciascuno di noi: <<Sono tuo, ti appartengo>>. In Gesù, Dio si fa nostro; ma anche noi siamo chiamati a diventare “di Dio”, fino alla sublimità e alla gloria della vita di Dio, posseduta e partecipata in una intimità che non avrà fine. Tutto comincia e finisce con questo primo comandamento. Si capisce allora perché Gesù, alla richiesta di quale fosse il massimo comandamento, non ebbe bisogno di ripetere le parole di Mosè, ma disse: <<Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente>>.
Del resto non diventiamo di Dio se non siamo permeati del suo amore, e Dio non diventa nostro se noi, a nostra volta, non possediamo Dio nella comunione del suo amore. Quando il Signore afferma di essere il nostro Dio dice che noi siamo le sue creature e a Lui apparteniamo; in Isaia ci dice: <<Ora così parla il Signore che ti ha creato, o Israele, non temere, perché ti ho redento, ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni>> (Is 43,1).
Dipendiamo da Lui, come dipende da Lui tutta la storia, il mondo, l’universo intero. Dio è Signore e rimane Signore sempre e in ogni momento. Nessuno può sostituire il Signore. Eppure ogni uomo corre il rischio di diventare un idolo per se stesso e per gli altri uomini. In fondo è la radice primordiale “Sarete come Dio” che inclina l’uomo a trovare grave il giogo del Signore e leggero il giogo dei sostituti di Dio.
C’è nel mondo, e va di pari passo con l’idolatria delle cose, una certa superbia degli occhi e della vista, una specie di esaltazione delle cose materiali. Il mondo di oggi dichiara che la cultura è estranea all’idea di Dio, che la civiltà di oggi finalmente si è liberata da tutti i miti, perché il pensiero di Dio, dell’eternità, dello Spirito, non sono altro che sogni di bambini che scompaiono quando si è adulti.
Queste idee dilagano nel mondo come una lenta cancrena, spingendo i Cristiani a diventare un po’ meno Cristiani, meno religiosi, a mettere un po’ meno Dio al centro della loro vita, a essere meno cultori dell’eternità, e, al contrario, cercando di farli aderire di più alle cose terrene, alle cose mondane, più impegnati a edificare la città terrena, piuttosto che quella del cielo; cioè la patria futura. Questa mentalità era già presente all’epoca di S. Paolo, tanto che scrivendo ai Cristiani di Colosse dice: <<Cercate le cose di lassù, non quelle di questo mondo>>.
Dunque dobbiamo mettere il Signore al centro della nostra vita e di conseguenza rinunciare a qualsiasi idolo che ancora oggi prende il suo posto. Ma subito dopo aver preso l’impegno a rinunciare agli idoli, affinché Lui diventi veramente il Signore della nostra vita, dobbiamo annunciare con forza a tutti che il Signore è Signore, diventando in tal modo anche la voce del mondo che confessa la Signoria di Dio. Mentre quando vogliamo essere sordi a questa Signoria, rappresentiamo anche la sordità dell’universo.
Come voce del mondo, siamo noi a sapere che Dio è Dio, che il Signore è il Signore; l’universo lo saprà solo per mezzo nostro, o non lo saprà mai. E nella misura in cui noi uomini, da signori dell’universo, gridiamo che il Signore è il Signore, l’universo diventa “luogo di pace”, l’eden di Dio. Mentre invece, se come essere umani ci appropriamo delle cose per cedere alla tentazione primordiale “sarete come Dio”, allora l’universo diventa l’esilio, il luogo di sofferenza, di tristezza e spesso di disperazione.
Quando noi lo facciamo diventare davvero “il Signore della nostra vita”, allora cresce la comunione nel suo amore eterno e ci sentiamo avvolti dalla sua tenerezza e dalla sua consolazione.
Egli ci ama. Siamo tutti amati da Dio. E più l’amore con cui il Signore ci ama diventa il nostro amore, più acquista anche le qualità dell’amore di Dio. E una qualità di questo amore è di essere universale, per tutti e per ciascuno in particolare. Da qui poi nasce il nostro impegno di carità fraterna.
Dobbiamo crescere ancora tanto nell’amore e nei gesti fraterni. Ricordo che il primo di questi gesti è la stima, il saper stimare gli altri anche migliori di noi. Vivendo spesso insieme con i fratelli della Comunità, e maggiormente in famiglia, è inevitabile che conosciamo bene i nostri reciproci difetti. Ma la carità ci aiuta a non giudicare le persone facendo la somma di loro difetti, bensì facendo la somma delle loro qualità, del loro bene. La carità vera non ci fa mettere l’accento su quei limiti che in certi momenti ci crucciano e ci causano tante inquietudini interiori; perché quando ci contrariano, non è per amore di virtù, ma perché feriscono il nostro amor proprio, il nostro egoismo, il nostro comodo!
La stima deve poi diventare benevolenza, che vuol dire voler bene, solo il bene per i nostri fratelli.
Con la stima, la benevolenza, l’affetto, la dedizione, noi dobbiamo imparare da Cristo i gesti grandi della carità come: il perdono, il saper dimenticare i torti, fino ad amare chi ci ha fatto soffrire, fino a benedire chi ci maledice.
Il Signore ci faccia veramente caritatevoli e ci aiuti a poter cantare sempre con grande sincerità e verità: <<Quanto è bello e soave che i fratelli vivano insieme>> (Sal 131,1).
Ora, riflettendo su Gesù porta di salvezza, capiamo che anche noi possiamo essere porta; che davanti alla nostra stessa anima c’è una porta che immette nella profondità del nostro essere, e davanti alla quale Gesù, come un mendicante, continuamente bussa. Per noi c’è quindi un impegno di apertura e di disponibilità a riceverlo, affinché Lui diventi il nostro ospite e noi diventiamo di conseguenza santuario dell’Altissimo.
Questa presenza della Trinità nella nostra anima è un mistero, un evento che non ci può lasciare indifferenti, è il principio di ogni nostra santificazione.
Ora Gesù non viene come un ospite passivo, ma come Qualcuno mandato a compiere in noi una missione di salvezza. Di fronte a questa realtà misteriosa, quali sono i nostri atteggiamenti spirituali? Teniamo presente che il Signore non entra in casa di nessuno forzando la porta, ma bussa. C’è il nostro ascolto? Siamo abbastanza attenti al fatto che alla porta del nostro cuore qualcuno bussa per entrare? Spesso è vero il contrario e molte cose entrano in casa nostra prima del Signore.
La nostra non è sempre una casa adorna, pulita, ma piuttosto ingombra di un’infinità di cose superflue e banali e peggio ancora di idoli terreni, di vanità e superbie della vita. È drammatica la condizione dell’uomo che non si apre a Dio, che sceglie di non aprire a Lui che bussa.
Rapiti dall’adorazione
e dall’esperienza di Dio
Fino a quando io non arrivo a comprendere davvero che è Lui che si fa presente, è Lui che bussa alla mia porta, Lui che entra in casa mia, è Lui che la invade, è Lui che la crea, e la crea secondo le sue dimensioni e non le mie, finché la presenza di Dio non diventa questa esperienza totalizzante nella mia vita, io non posso pregare con il profeta Elia: <<È vivo Dio, alla cui presenza io sto!>> (2 Re 3,14). Non posso gridare che il Signore è vivo e che io sono vivo in Lui.
Qui sta il segreto di una trasformazione contemplativa di tutta la nostra vita spirituale e ascetica. Tutto deve diventare presenza di Dio, tutto deve diventare in me consapevolezza che io non vivo lontano da Dio, che io vivo con Lui o, meglio, che Dio è dentro di me e io vivo di Lui. Questa esperienza mi rende contemplativo; mi aiuta a uscire da me stesso e a perdermi in Lui adorandolo.
Dobbiamo diventare sempre di più adoratori del Padre. Adorare Dio! Rimanere incantati, rapiti davanti a Lui perdendo la nozione del tempo, della vita, delle nostre libertà o delle nostre sapienze! Anche se per l’uomo, per ognuno di noi adorare è un’impresa faticosa! L’uomo infatti istintivamente vuole essere adorato, non vuole adorare. Eppure dobbiamo adorare Dio e restare rapiti. L’adorazione ci conduce alle soglie dell’estasi: perduti nel Signore adorando, cresce così in noi il senso di Dio! Una realtà misteriosa questa, dentro la quale ci muoviamo: <<In Lui viviamo, in Lui ci muoviamo ed esistiamo>> (At 17,28). Adorando il Signore cresce in noi anche il senso della gloria di Dio. La gloria di Dio nelle cose, nelle creature, ovunque. Dobbiamo vivere solo per la gloria di Dio, così come è stato per Gesù: <<Io cerco la gloria del Padre mio>>.
Invece quanta confusione, quanto smarrimento negli uomini d’oggi! Con quanta facilità essi glorificano le creature, i divi, le star, personaggi artificiali creati soltanto dai mezzi di comunicazione: sono gli uomini e le donne gloriosi del nostro tempo! Ed è triste constatare che anche alcuni consacrati perdono la testa dietro a un calciatore famoso, o a un cantautore più o meno trasgressivo, invece di perderla per il Signore della gloria. Dobbiamo essere più attenti e non perdere mai il senso della adorazione, della gloria e della presenza di Dio. Questo deve diventare l’estasi beata di ogni istante e di ogni giorno della nostra vita.
Ora, tornando alla riflessione su Gesù-Porta, dobbiamo considerare che la porta non richiama soltanto l’entrare, ma anche l’uscire. Uscire dal proprio guscio per raggiungere ogni uomo là dove vive. Molti attendono da noi una testimonianza di amore vero, concreto e generoso. L’amore rimane la via attraverso la quale è ancora possibile parlare agli uomini di oggi e renderli attenti all’annuncio del Vangelo. Uscire da quella Porta Santa che è il Signore per andare come Lui a ogni uomo, a tutto l’uomo, spirito e corpo. E costruire un mondo nuovo, un nuovo stato di cose, un nuovo modo di essere e di vivere, togliendo dal cammino tutti gli ostacoli che impediscono di realizzare il Regno di Dio nel mondo, come l’odio, la violenza, l’egoismo, il razzismo, la vendetta, la fame, la miseria.
Uscire dunque dalla Porta significa diventare missionari come lo sono stati gli Apostoli, i discepoli. Ora la nostra missione è strettamente collegata a quella di Gesù: <<Come il Padre ha mandato me, così io mando voi>> (Gv 20,21). La sua missione è stata un esodo: uscire da Dio, per ricercare la pecorella smarrita. Anche la nostra missione è un esodo per annunciare a tutti, al mondo intero che Cristo è risorto! Sì, Egli è veramente Risorto!
Questo grido ha attraversato il tempo, i secoli, da Maria Maddalena, la prima che ha fatto esperienza del Risorto, e da Pietro, fino a noi oggi. Questo è un grido onnipotente che fa crollare ogni muro, come le mura di Gerico; fa crollare ogni muro di separazione, fa crollare le mura delle nostre prigioni, togliendo ogni schiavitù e spezzando ogni laccio che ci toglie la libertà dei figli di Dio; questo grido riecheggia fino ai confini della Terra, spargendosi nell’universo intero.
Questo grido è il segno che la tomba è vuota, il sepolcro è vuoto, e che Colui che io amo e al quale ho consegnato tutta la mia vita, ora è nella gloria, è risorto, e io partecipo con Lui alla vittoria sulla morte, su ogni morte. Sì, Gesù si è rivelato come il vincitore della morte e come Lui anche noi siamo chiamati a diventare vincitori sulla morte, comunicatori della nuova vita data in abbondanza, rinnovatori della condizione umana, maestri e soprattutto testimoni della via che conduce alla santità.
Dobbiamo stare molto attenti e vigilare perché questo nostro cammino missionario, di evangelizzatori, non alimenti la nostra gloria, per farci un nome. Del resto noi siamo capaci di far servire anche le cose più sante, anche il servizio di Dio (anche Dio!) alla nostra affermazione personale. Dobbiamo morire alla nostra gloria e per questo dobbiamo chiedere a Dio di farci fare un’esperienza bruciante della sua gloria, come il profeta Ezechiele che cadde a terra come morto; solo dopo Dio poté pronunciare il suo: <<Ora va’ e profetizza al mio popolo>>.
Questi erano uomini nuovi, morti alla propria gloria, perciò liberi e tremendi. Il mondo è disarmato contro tali uomini. Con essi non può mettere in opera il suo potere di seduzione e di lusinga. Ma dobbiamo ricordare una cosa: il tarlo della ricerca della propria gloria non muore se prima non passa per la croce. Accettare la croce è l’unica via per purificare davvero le nostre intenzioni.
Tolto l’ostacolo principale che è la ricerca di sé, non siamo ancora alla perfezione delle intenzioni. L’intenzione nel predicare Gesù può essere inquinata da altre mancanze. Tra esse la principale è la mancanza d’amore (1 Cor 13).
Si può annunciare Gesù a volte per motivi che hanno poco o nulla a che vedere con l’amore. Mentre il Vangelo dell’amore non si può annunciare che per amore. Dio è amore e non si comunica che per amore. E solo chi è innamorato di Gesù lo può proclamare al mondo con convinzione. Mentre noi spesso somigliamo al profeta Giona, che era andato a predicare agli abitanti di Ninive, ma non li amava; e Dio dovette intervenire di più per convertire lui, che non per convertire gli abitanti di Ninive. Giona sembra più contento quando può gridare: <<Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!>>, che non quando deve annunciare il perdono di Dio e la salvezza della città.
A volte anche noi come evangelizzatori siamo gelosi, vanagloriosi e impuri.
Sentiamo anche tutto il peso della nostra povertà, inadeguatezza e impotenza di fronte alla straordinaria missione che il Signore ci affida, tanto che ci sembra che l’esperienza del giovane Geremia diventi la nostra esperienza: <<Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare perché sono giovane>> (Ger 1,6).
Ma il dono dello Spirito, che ci santifica, ci purifica dalle nostre miserie e ci dona forza, fa udire anche a noi le confortanti parole del Signore rivolte al profeta Geremia: <<Non dire sono giovane, ma va’ da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti>> (Ger 1,7-8).
A volte nell’annunciare Gesù ci sentiamo stringere un po’ il cuore di paura, paura dei fallimenti, paura di non essere ascoltati e accolti, paura di perdere la faccia, allora il Signore viene in nostro aiuto e ci risponde, come all’apostolo Paolo a Corinto: <<Non temere, c’è per me un popolo grande in questa città>> (At 18).
L’umanità intera
attende di “entrare”
Quando andiamo ad evangelizzare dobbiamo sempre ricordarci che siamo mandati da Gesù e quindi assomigliare a Lui. E che cosa faceva Gesù? Andava.
Conosciamo bene invece una certa tendenza a rendere stanziale la missione. Quanti missionari costruiscono realtà destinate a durare per molto tempo ed è ovvio che affiori una certa tendenza a fermarsi, anche a motivo dell’affetto con cui la gente li circonda. (Non è negativo costruire realtà che durino nel tempo, ma il missionario una volta fondata una comunità per mezzo del suo annuncio, deve poi lasciarla ad altri e lui deve andare). Perché la logica del Vangelo è “andare”. A Gesù è capitato poche volte di essere cacciato, il più delle volte se ne è andato di sua iniziativa, anche quando volevano trattenerlo.
Dice infatti Gesù: <<Ho altre pecore che non sono del gregge>> (Gv 10,16). Gli Apostoli, primi missionari, hanno imparato a memoria questa lezione: hanno fondato Chiese, ma si può dire che nessuno di loro è morto nella Chiesa che ha fondato. Certo che i missionari sentono spesso nel loro spirito e nella loro carne come questo andare sia pesante, nel contempo però scoprono anche la bellezza misteriosa di continuare a essere missionari sereni e fiduciosi, pieni di speranza, che continuano a seminare e camminare senza stancarsi mai, perché lo Spirito di Gesù cammina con loro e li sostiene, li ammaestra, riempie il loro cuore di gioia e di consolazioni: <<Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi>>.
Può anche darsi che maturino tempi nei quali l’andare possa prendere forme più difficili. I missionari espulsi, cacciati o perseguitati fino al martirio oggi sono una realtà. Gli Apostoli prima di noi sono stati trattati così. Il Signore l’ha promesso: <<Vi cacceranno>>. E ancora: <<Se vi rifiutano in una città, andate in un’altra>>. Ci sono tanti luoghi che aspettano. Ci sono miliardi di persone che aspettano il Signore Gesù con il suo Vangelo. C’è urgenza di andare, di camminare, i nostri piedi devono andare spediti ad annunciare la bellezza del Vangelo, dove vuole il Signore Gesù. La Scrittura dice: <<Beati i piedi di coloro che evangelizzano la bontà e di coloro che evangelizzano la pace>>. Il Vangelo è inconsciamente aspettato e dolorosamente atteso da una umanità disorientata, povera, miserabile. Una umanità che attende i “piedi che evangelizzano la bontà e la pace”. I piedi beati che annunziano la salvezza, Cristo Gesù.
Abbiamo riflettuto su alcuni aspetti di Gesù come Porta:
- il primo è stato quello di entrare in quella porta benedetta che è Gesù per ottenere la salvezza, la liberazione, la guarigione e la comunione con Dio;
- il secondo è che davanti alla nostra anima, davanti al nostro cuore c’è una porta da aprire perché Gesù possa entrare e dimorare in noi;
- il terzo è che Gesù è una porta che fa entrare ma fa anche uscire per andare, per essere missionari, evangelizzatori;
- l’ultimo aspetto è che questa Porta Santa che è Gesù ci invita a entrare per ritornare al Padre.
Per intraprendere questo cammino di ritorno che è già iniziato, Gesù ci dà il sostentamento, il nutrimento. Lui stesso dice che chi passa attraverso quella Porta, che è Lui, troverà pascolo. Lui si proclama vero cibo: <<Io sono il pane, quello vivo, venuto dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà per sempre. Il pane che io gli darò è il mio corpo, dato perché il mondo abbia la vita>> (Gv 6,51).
Lui si fa cibo per noi sotto due aspetti complementari: la sua Parola, vale a dire la rivelazione, e il dono della sua Vita, che sarà comunicata nel sacramento dell’Eucarestia. Entrando in quella porta che è il cuore di Gesù noi troviamo pascolo, dove il Signore non solo ci fa suoi commensali, ma dona a noi Se stesso in cibo per la nostra vita spirituale, capace di nutrirci per la vita eterna. Questo cibo è anche una sorgente inesauribile di gioia, quella che niente e nessuno può toglierci. Quella gioia che ci libera dalla solitudine esistenziale e ci riempie con l’intimità e la ricchezza del suo amore.
Dunque nutriti dalla sua Parola e dall’Eucarestia, presi per mano dal Signore, ritorniamo al Padre. Il cammino che dobbiamo fare dalla terra al cielo, dal tempo all’eternità, dall’esilio alla patria, è la nostra dolorosa conversione. In questo cammino alla sequela di Gesù, noi incontriamo la croce: l’abbiamo piantata noi stessi, con il nostro peccato, sulla sua strada; Egli la prende, la porta fino sul monte santo e lì, proprio dall’altezza della sua croce, ci attira a Sé, diventando il punto d’incontro del mondo intero.
Questo ritorno è un cammino in cui l’anima deve volgersi di nuovo a Dio, convertirsi a Lui; e fintanto che non siamo giunti, la conversione rimane legge di tutta la vita.
Una volta che il peccato ci ha allontanato da Dio, arduo è il cammino che ci riporta al Signore, perché la nostra natura continuamente ci riallaccia alle cose visibili, che poi ci rendono indisponibili a Dio. Di fatto, noi viviamo di più alla presenza delle cose che di Dio; le cose e gli uomini hanno per noi un’attrazione più grande di quanto non ne abbia Dio. Se ci attacchiamo alle cose non percepiamo più la sua presenza; ma, via via che ci avviciniamo al Signore, le cose perdono peso, perdono forza e Dio si manifesta più grande, diviene più vivo.
E, varcata quella Porta santa e benedetta che è il Signore, sentiamo quella voce del Padre che ci chiama dicendoci: <<Lascia la tua terra, vieni in una terra che io ti mostrerò>>. Ora quale terra io debbo lasciare? Precisamente quella in cui mi trovo, quella che ho fatto mia nella mia cupidigia, per entrare in quella di Dio, una terra che non conosco e che il Signore apre giorno per giorno al mio sguardo. È una terra ignota, deserta. Ma è questa la via del mio cammino.
Se vogliamo ritornare al Padre, allora non possiamo più indugiare nel cammino, ma possiamo solo obbedire, così come è stato per Abramo. La sua obbedienza non conosce indugio, ma è assoluta: assoluta perché non conosce condizioni, non ha alcuna riserva, perché tutto egli dona. Dio può comandargli tutto, anche il sacrificio del figlio e Abramo non si rifiuta, non dà una parte di sé, del suo tempo, non dà solo qualcosa, dona tutto quello che ha e che è.
Ma in questo cammino di ritorno e di obbedienza è Gesù che ci conduce, Lui, il Figlio obbediente per eccellenza. Gesù dirà che la sua obbedienza al Padre è addirittura suo cibo e suo alimento.
Ora il Padre lo ha promesso come Colui che avrebbe ricondotto in Patria l’uomo esiliato dalla colpa; e ora che Gesù è venuto, incomincia il ritorno: <<Uscito dal Padre sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo e torno al Padre>> (Gv 16,28). L’amore lo ha condotto a essere uomo, ma non lo ha fatto rimanere tale; perciò ritorna al Padre e diventa così la nostra speranza. Cristo Risorto è la nostra speranza, è la speranza della gloria. Lui che è venuto e se ne è andato, che continua a venire per attirare noi. E noi andiamo a Lui colmi di desiderio, di fiducia, padroni ormai del titolo della nostra libertà, della nostra salvezza, della nostra redenzione, della nostra gloria, noi “eredi della vita eterna secondo la speranza”.
Gesù risorto e asceso al cielo ha sradicato il cuore dell’uomo da questa terra di esilio per trapiantarlo nella patria del cielo. Lui ci sta conducendo in un paradiso che è infinitamente più bello e più grande di quello da cui fu cacciato il primo Adamo, perché il Signore non vive soltanto in una creazione rinnovata, riconsacrata a Dio, vive nel seno stesso del Padre. E in Gesù che ci conduce, ogni porta si apre per noi: non solo la porta di un giardino, dell’Eden, ma il cuore stesso del Padre, luogo del suo e del nostro riposo per l’eternità.
Tutta la storia della salvezza si percorre tra queste due porte: la porta del paradiso perduto dopo il peccato e la porta della Gerusalemme Celeste. La consumazione di questa storia di salvezza, la consumazione del ritorno di Gesù è atteso sia in Paradiso che in terra. Cielo e terra si contendono l’avvento glorioso del Signore: <<Vieni, Signore Gesù>>. Lo dicono i beati, lo dicono gli angeli, lo diciamo anche noi: <<Vieni, Signore Gesù>>.
E quando saremo finalmente arrivati alla casa del Padre allora si aprirà la Porta del cielo e ascolteremo una voce potente che dirà: <<Conosco le tue opere. Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Per quanto tu abbia poca forza, pure hai osservato la mia Parola e non ha rinnegato il mio nome>> (Ap 3,8).
E aperta la porta dal Signore di casa, potremo sedere con Lui in dolce compagnia di persone divine, come ci promette Lui stesso nella Scrittura: <<Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me>> (Ap 3,20).
E in quel giorno splendente che non conosce tramonto sarà la nostra gioia e pace senza fine. <<Là – come afferma S. Agostino – riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo>>. Amen! Alleluja!
di Paolo Serafini
Convegno Internazionale 2000